Storia di Napoli

Scugnizzi napoletani, storia drammatica di infanzia negata

Chi sono, o meglio chi erano gli scugnizzi? Qual è l’origine e l’etimologia del termine? Sono le prime domande che si pone chi vuole conoscere la storia di questi ragazzi difficili da inquadrare in maniera univoca.

Tuttavia, rispondere alla prima non è difficile. Aldilà di qualsiasi complessità interpretativa, si tratta della drammatica immagine di un’infanzia negata.

Lo scugnizzo è in primo luogo un ragazzo di strada ma non per questo un giovane delinquente. Anche se questo fu il primo significato che ebbe in origine. La strada è la sua casa perché non può contare su una famiglia, che l’ha abbandonato o che non ha mai avuto.

 

Gli scugnizzi, folclore e tragedia

 

Vive di espedienti. È furbo, spavaldo e spesso costretto a sfuggire a situazioni complicate in cui si è dovuto cacciare. Se necessario non disdegna qualche furtarello ma non è un piccolo camorrista.

Aggiungiamo però che questo scugnizzo appartiene alla storia, sia pur non molto lontana di Napoli. Una storia che va dal pittoresco, al folclorico, al romantico fino ad arrivare alla tragedia. Come durante le Quattro giornate di Napoli e nel Primo dopoguerra.

Poi con la crescita economica e il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita, sparirono anche gli scugnizzi che dormivano per strada o sotto i banconi. È si contendevano un tozzo di pane con i cani.

Questo non vuol dire che di colpo Napoli era diventata il Paese di Bengodi. Neanche oggi lo è. Interi quartieri vivono ancora in condizioni precarie quando non di degrado.

 

I fondaci di Jessie White Mario

 

Tuttavia, non siamo nelle condizioni descritte dalla giornalista inglese Jessie White Mario nel suo libro inchiesta La miseria in Napoli.  Accompagnata da due amici napoletani visita i fondaci.

Erano dei grossi magazzini destinati allo stoccaggio delle merci. Ma la povertà aveva spinto centinaia di famiglie a trasformarle in luridi terranei per uso abitativo.

Ma nei quali “i soffitti crollavano, molte delle stanze totalmente buie, l’una ricevendo luce dall’altra, e questa dalla porta, oppure da buchi, chiamati finestre; ma senza vetri. Ogni fondaco è formato da più camere e “tenendo bene in mente che molte sono occupate da due ed anche tre famiglie, se ne comprendo facilmente tutta la luridezza.”

 

Miseria e rassegnazione

 

La scrittrice però si sofferma anche sullo spirito di rassegnazione delle persone che vi abitano:

In una camera abitava una madre con sette bambini, l’ultimo attaccato inutilmente all’arido petto, e così su su sino all’età di dodici anni, sei scheletri che mi ricordavano l’ossario di Solferino. E di che potevano nutrirsi? Il padre, poco abile al lavoro per recente tifo, guadagnava da un ottonaio una lira al giorno, e ne pagava nove mensuali per la camera. Una bambina filava, un’altra portava in braccio una piccina ammalata. Io soffriva a vederle, e a non poter nulla per esse. In tanta miseria parmi crudeltà fare distinzioni fra i miseri. In un’altra stanza c’era un vecchio del tutto inabile al lavoro, e, da quel che capii, mantenuto dalla carità degli altri inquilini della camera – ed erano sette, ed i letti erano tre! Dal qual fondaco io uscii coi miei compagni, ambedue Napoletani, oppressa dal senso della troppa rassegnazione di tutto e di tutti.”

 

L’origine del termine scugnizzo

 

Nell’accezione odierna lo scugnizzo rimane un ragazzo di strada ma senza la drammaticità che gli era propria in passato. Lo scugnizzo “moderno” e un ragazzo sveglio, autonomo, intraprendente. Degenerando può diventare bullo e fare branco.

Scherzosamente lo scugnizzo è anche il bambino esuberante, il monello che fa disperare i familiari per la sua iperattività.

Il termine scugnizzo veniva fatto risalire al latino excunerare da cui scugnare che vuol dire rompere, spaccare. Ma ormai tutti gli studiosi hanno abbandonato questa derivazione, perché indubbiamente si tratta di una forzatura. Innanzitutto, per una questione temporale.

 

Scugnizzo compare per la prima volta nel 1897

 

La parola compare in letteratura per la prima volta nel 1897. La introduce Ferdinando Russo in una raccolta di sonetti: ’E scugnizze. Ed è proprio il poeta ad escludere il nesso con il latino.

Infatti, scrive di aver ascoltato per la prima volta questa parola negli anni Novanta dell’Ottocento, per cui si sente di escludere una provenienza così lontana. Piuttosto ritiene “più probabile che provenga da un ambiente non napoletano e che sia stata assorbita in un uso gergale”.

A sostegno della sua tesi è intervenuto il professor Nicola De Blasi, linguista e accademico della Crusca secondo cui deriverebbe da alcune parole dialettali del Settentrione. Tra cui il piemontese “gugnìn”.

 

Dagli scugnizzi piemontesi a quelli napoletani

 

Resterebbe però da capire come sia arrivato e attecchito a Napoli. Secondo De Blasi la soluzione è semplice.  E lo spiega in un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno. Dopo l’Unità d’Italia arrivano a Napoli anche gendarmi, carabinieri e funzionari della Questura provenienti dal Nord. E quindi anche dal Piemonte.

L’ipotesi, quindi, sarebbe che “gli stessi monelli napoletani nel corso di inseguimenti, interrogatori, detenzioni, sentendosi definire o apostrofare come gugnìn, abbiano fatto propria questa definizione”. Quindi la parola si sarebbe introdotta attraverso ambienti carcerari, la malavita napoletana.

La tesi è ampiamente suffragata ancora da Ferdinando Russo che ritiene “scugnizzo” un termine utilizzato nell’ambito della malavita napoletana. E conferma senza mezzi termini: «In gergo, questi ragazzi, che si avviano spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto, vengono denominati scugnizzi».

 

’E scugnizze, poesia amara di Ferdinando Russo

 

Tuttavia, Russo nell’introduzione all’edizione del 1920 dei sonetti ’E scugnizzi non li considera come piccoli delinquenti lombrosiani.

Anzi ritiene che i sonetti debbano “considerarsi come ľInno melanconicamente ironico all’Infanzia abbandonata. Scugnizzi in balìa del Caso fino a quindici o sedici anni, i miei piccoli eroi, fatti adulti, non possono altro diventare — meno qualche rara eccezione — che Gente ’e mala vita.”

’E scugnizze è una poesia, suddivisa in XVII quadri, che offre un’immagine molto viva ma in qualche caso spiazzante di questi ragazzi. (Testo e traduzione).

 

Lo scugnizzo Raffaele Viviani

 

Ma chi meglio di Raffaele Viviani poteva trattare l’argomento. Scugnizzo tra gli scugnizzi, viveva, giocava e apprendeva dalla strada. «A 12-13 anni – ricorda – i suoi compagni erano cresciuti di altezza ma non di testa. A malapena frequentavano la scuola e il più istruito “a stento sapeva firmare”. Poi la maturazione: donne, carte, liti cruente e carcere. Che spesso diventava un luogo abituale per molti di loro

Papiluccio, come veniva chiamato abitualmente, di quelle esperienze raccolse solo l’impronta, che trasmetterà magistralmente nelle sue opere. Ma si fermò prima del baratro, si procurò un sillabario e si disse: «Raffaele, mettici impegno! E prese a correre con A E I O U».

 

I ‘guagliuni’ di Francesco Mastriani

 

Anche Francesco Mastriani fu un grande conoscitore di questi ambienti e quindi di questi ragazzi. Ma risalta un particolare molto importante: non ha mai utilizzato il termine scugnizzo. Infatti, Mastriani muore nel 1891 e Russo solo nel 1897 “scopre” questa parola.

L’autore dei Vermi e dei Lazzari usa il termine equivalente di guaglione. E proprio nei Vermi lo descrive come re di Napoli e padrone assoluto “del suolo sebezio, (dove) esercita talvolta il suo impero con una tirannia che è tanto più inesorabile quanto è più graziosa”.

E ancora Mastriani: «Il nostro guaglione vive come l’Arabo di Palmira. Quando ha guadagnato l’obolo del giorno, egli si sdraia sulla nuda terra spensierato, allegro, contentissimo; e canta la canzone del popolo accompagnandosi tal fiata con uno scacciapensieri. […] Piuttosto che vivere negli antri de’ fondachi e de’ supportici dove vive la sua famiglia, quando ne ha una, il guaglione preferisce di vivere nel suo mondo, che è la pubblica strada. I gradini di una chiesa, i marciapiedi delle strade sono le consuete materasse dove egli si pone a giacere la notte

 

Il fallimento del Real Albergo dei Poveri

 

Gli scugnizzi erano il frutto di una società priva di strutture e servizi sociali. Dove la povertà e l’analfabetismo erano problemi endemici. I Borboni pensarono di offrire una via d’uscita ai giovani con la realizzazione del Real Albergo dei Poveri. In quella struttura vennero istituite delle scuole per insegnare un mestiere ai giovani provenienti dalla Casa dell’Annunziata ma erano aperte a tutti i ragazzi che volevano usufruirne.

Ma si rivelò un problema proprio questo aperto a tutti. Infatti, la colossale struttura fu pensata per accogliere tutti i poveri della città. Ma tra questi arrivò anche la peggiore feccia, che annusò i vantaggi che avrebbe potuto trarre dal controllo di questo complesso.

Tra quelle mura avvenivano le peggiori nefandezze celate alla vista del mondo esterno. E tra le vittime innocenti vi furono in primo luogo proprio i ragazzi. Quelli che speravano, imparando un mestiere, di poter aspirare ad un futuro migliore.

Invece rimanevano intrappolati nelle mani della criminalità in quello che proprio per questo acquisì il nome di Serraglio, cioè reclusorio, carcere perché chi vi entrava non ne usciva più.

 

Gli scugnizzi nelle Quattro Giornate di Napoli

 

Gli scugnizzi furono eroici protagonisti delle Quattro Giornate di Napoli. Per niente intimoriti dal pericolo mortale combatterono sulle barricate ma attaccarono anche i tedeschi nelle strade come fossero addestrati per la guerriglia urbana. Catturarono e prontamente impararono ad usare anche armi pesanti.

Il contributo degli scugnizzi fu talmente alto che i denigratori delle Quattro Giornate cercano di sminuirla riducendola ad una rivolta di lazzari e scugnizzi. Incredibile ma vero ai Meridionali viene negata persino una evidenza storica.

E poi ci meravigliamo che i neonazisti negano la shoah.

 

Il soldato americano principale fonte di reddito

 

Ancora protagonisti gli scugnizzi nel primo dopoguerra, con la miseria e gli americani come “unica fonte di reddito”.

Per sopravvivere serviva creatività, spavalderia e anche molta imprudenza. Ma l’alternativa era la fame. Quindi gli scugnizzi, che di queste doti ne avevano a iosa, le usarono con i soldati e marinai americani. Li guidava in giro per la città in cerca di luoghi di svago, di sbornia e di prostituzione. E li alleggerivano di un bel po’ di Am-lire.

Ma del resto non è un mistero che nel primo dopoguerra la sopravvivenza a Napoli era molto difficile. La città era occupata da oltre centomila militari statunitensi provenienti dal fronte di Cassino. Volevano soltanto dimenticare gli orrori che avevano vissuto e trasformarono la città in un gigantesco bordello. La camorra e il mercato nero facevano affari d’oro.

 

Curzio Malaparte e la Peste di Napoli

 

La popolazione napoletana visse uno dei momenti più bui e degradanti della sua storia. Curzio Malaparte fotografa impietosamente quella situazione di degrado e la definisce la Peste di Napoli nel suo romanzo storico La pelle.

 “(Gli uomini) Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carponi nel fango baciando le scarpe dei loro ‘liberatori’ (disgustati di tanta, e non richiesta abbiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; sputavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre.”

 

I pedofili marocchini e le madri abiette

 

Ma al peggio non c’è mai limite e alcune abiette madri arrivavano ad una inqualificabile depravazione:

Sapevo che lì davanti a noi, a pochi passi da me (udivo le risate magre dei bambini, la rauca voce dei goumiers), c’era il mercato dei bambini, che anche quel giorno, in quell’ora, in quel momento, ragazzi dagli otto ai dieci anni sedevano seminudi davanti ai soldati marocchini che li osservavano attentamente, li sceglievano, contrattavano il prezzo con le orribili donne sdentate, dal viso scarno e vizzo incrostato di belletto, che facevano commercio di quei piccoli schiavi.”

I goumiers erano soldati marocchini integrati nell’esercito francese. In Italia divennero famosi per le cosiddette “marocchinate”, stupri ed esecuzioni di massa perpetrate contro donne, bambini e uomini e… preti. I goumiers sono gli stessi che nel film La Ciociara, di Vittorio De Sica, violentano Cesira (Sophia Loren) e la figlia dodicenne.

 

L’Italia cresce ma la fame resta

 

Superata la difficile fase del primo dopoguerra, l’Italia si avviava verso il boom economico. Ma i tempi erano ancora lunghi e la vita era ancora dura. Negli anni Cinquanta le famiglie erano numerose e le entrate poche. Nella tipica “famiglia povera”, il padre faceva un lavoro saltuario e la madre la casalinga e cresceva quella nidiata di bambini. I guagliuni più grandicelli venivano avviati ad un lavoro di garzone o di apprendista per aiutare la famiglia.

Mettere un piatto in tavola non era facile per cui il menù era di tipo militare. Standardizzato per ogni giorno della settimana.

Comunque, la fame, per chi più, per chi meno, era un problema reale. Quelli di sovrappeso erano ancora sconosciuti.

La vita nei vicoli era intensa sia sotto il profilo umano che microeconomico. Nei bassi si viveva e si cercava di organizzare qualche piccola attività. Ci si arrangiava e in un certo senso ci si aiutava l’un l’altro.

Questi vicoli brulicanti di vita non offrivano alternativa agli scugnizzi. I bassi non erano abitazioni confortevoli. Quindi i ragazzi alla tristezza di queste topaie preferivano la libertà della strada e l’allegria dei compagni.

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