Cimitero borbonico delle 633 fosse
Storia di Napoli

Cimitero delle 366 fosse, storia di un’opera grandiosa

Nel secolo dei lumi anche i Borboni vollero mostrarsi illuminati. E nell’ambito di una politica sociale fecero costruire il mastodontico Real Albergo dei Poveri e il rivoluzionario cimitero delle 366 Fosse.

Il Real Albergo dei Poveri fu commissionato da Carlo III all’architetto Ferdinando Fuga nel 1749 e i lavori cominciarono nel 1751. In dialetto viene chiamato dai napoletani anche “o surraglio”, che non deve essere tradotto in “serraglio”, che è tutt’altra cosa.

Con il termine surraglio si intende un luogo in cui viene chiusa la gente per costrizione o per necessità. Quindi non necessariamente un carcere o un manicomio.

Anche se, con questa accezione, quello che più gli si addice è “reclusorio” per i suoi trascorsi di carcere minorile.  Il termine viene inequivocabilmente utilizzato dal fratello del protagonista in un classico della commedia di Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello.

La scena è quella in cui lo zio si accorge che il nipote, figlio di Luca Cupiello, gli ha rubato e venduto le scarpe e il cappotto approfittando di un suo periodo di malattia.

Disperato si rivolge al fratello e gli grida: «Mettetelo o surraglio! questo è un delinguente. Ma che aspettate, ca va mettenne a fune a notte?». In pratica, che aspettate che diventi un criminale?

 

E il vecchietto dove lo metto?

 

Ma a Napoli con questo termine erano intese anche quelle che oggi sono le case di riposo per anziani. Tutti i napoletani conoscono le espressioni «’O vanno a chiudere dint ’o surraglio» oppure «che vònno fa ’o vònno chiudere dint ’o surraglio?”.

Il soggetto di cui si parla è un anziano che nessuno dei figli vuole tenere in casa, e si cerca una soluzione per liberarsene. Se non se ne trovano altre quella restante è la casa di riposo, generalmente molto economica.

Tuttavia, a scanso di equivoci, è bene chiarire che non tutti coloro che hanno dei parenti nelle residenze per anziani abbiano agito con queste motivazioni, e non tutte le Rsa sono uguali.

L’Albergo dei Poveri era detto così perché si riteneva fosse stato una sorta di ospizio per vecchi e di una folta schiera di derelitti.

La parola serraglio ha innumerevoli significati, ma nessuno che lo colleghi all’Abergo dei Poveri. Ad esempio, si riferisce al raggruppamento di animali esotici di un circo. A un sistema di sbarramento per la pesca. Nel mondo islamico residenza di sovrani e potenti ma anche harem.

Il progetto prevedeva la costruzione di una struttura che non aveva precedenti. Un edificio in stile Barocco napoletano che, nonostante fosse realizzato solo in parte, era all’epoca tra i più grandi d’Europa.

Si sviluppa su una superfice di oltre 100.000 metri quadrati. Una facciata di 354 metri, a fronte dei 600 previsti inizialmente, 430 stanze su livelli diversi nelle varie parti. Quasi 300 finestre che danno su piazza Carlo III.

 

Il rinnovamento urbanistico di Carlo III di Borbone

 

Il fiorentino Ferdinando Fuga all’epoca era uno dei più grandi architetti d’Italia. A Roma era architetto dei Sacri Palazzi e del Quirinale. Carlo III lo chiamò a Napoli da per avviare un’opera di rinnovamento urbanistico. E Fuga realizzò nella capitale le più grandi opere borboniche nel Settecento.

Oltre al Real Albergo dei Poveri e al cimitero delle 366 fosse, il palazzo dei Granili, la facciata della chiesa dei Girolamini, i palazzi Caramanico e Giordano.

Il progetto iniziale del Real Albergo dei Poveri è rimasto incompiuto per quasi la metà. Oltre alla lunghezza, che doveva essere circa il doppio di quella attuale, dei cinque cortili con chiesa esagonale centrale ne sono stati realizzati solo tre cortili.

Tuttavia, bisogna anche aggiungere che buona parte dell’intera struttura versa in uno stato di abbandono. Le dimensioni dell’edificio e gli interventi necessari per un vero recupero richiederebbero somme molto ingenti, volontà politica e notevoli capacità progettuali e amministrative.

Improbabili in una città che, solo dopo decenni di denunce, sia dei media che di semplici cittadini, ha costretto il Comune a ripulire una fontana. Semplicemente ripulire.

 

Una fontana senz’acqua

 

È la fontana del Tritone, più conosciuta come “fontana delle paparelle” a piazza Cavour. In un punto centralissimo della città, adiacente alla fermata Museo della metro collinare. A pochi passi dal Museo Archeologico Nazionale, attraversato ogni giorno da migliaia di cittadini e turisti.

Da decenni sono sparite le “paparelle”. Poi era sparita pure l’acqua. E la vasca vuota era diventata un ricettacolo di topi. Le ringhiere era però utili ai clochard che vivono intorno alla fontana, per stendere la biancheria.

Il Real Albergo dei Poveri, oggi detto anche Palazzo Fuga, invece mostra tutta la sua imponenza solo nella facciata principale restaurata insieme allo scalone monumentale centrale.

La destinazione d’uso dell’edificio è variata innumerevole volte nel corso dei suoi oltre 250 anni di storia.

La destinazione d’uso dell’edificio è variata innumerevole volte nel corso dei suoi oltre 250 anni di storia.

 

Le destinazioni d’uso del Real Albergo dei Poveri

 

Carcere, manicomio, reclusorio. Ma anche scuola di musica di notevole importanza. Centro per l’accoglienza e l’insegnamento di un mestiere agli orfani dell’Annunziata. Scuola per sordomuti.

Avviamento al lavoro e alla rieducazione dei detenuti adulti, successivamente dei minoriCaserma dei vigili del fuoco e Archivio di Stato

Tuttavia, inizialmente era destinato all’accoglienza dei poveri, dei mendicanti e dei derelitti senza fissa dimora e senza un lavoro.

Nel 1764 però divenne il ricovero di una torma di contadini, poveri, affamati e malati provenienti da tutti i casali di Napoli. La carestia iniziata nei primi anni del decennio, proprio nel 1764 divenne devastante per una popolazione già da lungo tempo stremata.

Ma ad aggravare la tragedia della carestia contribuì la speculazione e la qualità del raccolto molto scadente. Oltre alla enorme quantità di grano che venne distrutto dai mercanti perché, senza riscontri oggettivi, ritenuto infetto.

 

La terribile carestia del 1764

 

I primi mesi del ’64 furono di angoscia per l’intero Regno di Napoli. E molta popolazione delle aree limitrofe affluì nella capitale con la speranza di riuscire a sfamarsi.

Purtroppo, Napoli non era in condizioni migliori del resto del Regno, e l’afflusso di questa miserevole fiumana di affamati rese la situazione esplosiva, anche sotto il profilo sociale e sanitario.

Infatti, i napoletani accusarono questi poveretti anche di aver portato in città l’epidemia di “febbri putride”. Un’accusa infondata. Una conferma che l’espressione «guerra dei poveri» può non essere soltanto una metafora.

La verità era ancora più amara, perché le cosiddette febbri putride erano dovute soltanto alla insufficienza alimentare e alla conseguente insufficienza di vitamine fondamentali.

Il risultato fu comunque che di fame, di febbre o di altre malattie morirono ogni giorno centinaia di persone.

 

Da Real Albergo dei Poveri a lazzaretto

 

Il Real Albergo dei Poveri fu trasformato, in ospedale per la cura dei mendicanti malati grazie all’opera del famoso frate domenicano padre Rocco.

Ma con l’aggravarsi della situazione il frate, con i suoi i mendicanti venne trasferito in altro luogo. La struttura fu trasformata in lazzaretto. I cinquecento malati di padre Rocco divennero millesettecento con le nuove autorità.

Un disastro. In uno spazio insufficiente furono ammassati, più che curati, malati di ogni gravita, morti, vivi e semplici affamati. Inevitabile in queste condizioni la diffusione del contagio.

Questa terribile epidemia è per noi una dimostrazione che la storia non insegna nulla. Fatte le debite proporzioni i tragici giorni che stiamo vivendo con il Covid ne sono la conferma.

 

Non si trattò di un fulmine a ciel sereno

 

Le prime avvisaglie della sciagura che colpì Napoli nel 1764 partirono da lontano. Tra il 1970 e il 1972 il Regno era stato martoriato da una terribile carestia che si era attenuata nel 1763.

Ma il futuro non appariva roseo. Medici, scienziati e altre voci autorevoli misero in guardia il governo da una “seconda ondata” che sarebbe arrivata dopo questa pausa.

Il governo rimase sordo a questi allarmi e non fece nulla per adeguarsi a fronteggiare una crisi che si preannunciava sia sociale che sanitaria.

E la dimostrazione della cecità del governo rispetto alla gravità del momento la fornì Bernardo Tanucci. Primo ministro ma in realtà potente alter ego di Ferdinando IV, proprio nel 1764 impose una tassa sui generi alimentari suscitando una rivolta.

Ma la carestia e la susseguente epidemia colpirono come una mannaia facendo saltare welfare, strutture sanitarie e persino i cimiteri.

 

Epidemia e situazione sociosanitaria fuori controllo

 

E come se non bastasse non riuscirono neanche ad impedire che i contagiati lasciassero la città diffondendo il morbo il tutto il Regno. Per cui alla fine questa disastrosa gestione costò la vita a 30.000 persone.

Meno, comunque, delle oltre 115.000 che abbiamo raggiunto in Italia già nel mese di aprile del 2021 quando la pandemia del Covid 19 è ancora virulenta. Purtroppo, il Coronavirus ha dimostrato che l’umanità è molto più vulnerabile di quanto pensava di essere.

Tuttavia, quante di queste vite potevano essere salvate con una classe dirigente più coraggiosa e il comportamento più responsabile delle persone?

I regnicoli napoletani del 1764 si accalcavano, anzi si aggredivano se c’era da afferrare qualcosa da mangiare. Se malati venivano ammassati quasi l’uno sull’altro. Ma non si infettavano per la movida o per l’affollamento del lungomare e del centro storico.

 

L’endemica inadeguatezza delle strutture sanitarie

 

Che gli ospedali fossero in sofferenza allora era inevitabile. Non c’erano le strutture sanitarie che avrebbero dovuto esserci oggi.

Tuttavia, bisogna considerare che quella particolare malattia, quando non era ormai in fase avanzata, poteva essere curata con il cibo. Che però non c’era. Per cui l’ospedale era solo l’anticamera della tomba. Che era ancora più difficile da trovare

La sepoltura non era un problema di poco conto. I morti ricchi potevano ricevere una degna sepoltura nelle “terre sante” sotterranee delle chiese dalla città. Ai morti poveri era riservata la fossa comune.

L’ospedale Santa Maria del Popolo degli Incurabili per i suoi defunti di una enorme fossa disposta sotto la stessa struttura ospedaliera, denominata con dubbio gusto: Piscina.

Ma con il passare degli anni e delle tante sciagure che funestavano la città anche le enormi dimensioni di questa cavea avevano superato ogni limite. Senza contare i miasmi che appestavano l’ospedale stesso.

 

Per l’ospedale degli Incurabili nasce il cimitero delle 366 fosse

 

Fu chiesto quindi Ferdinando IV di intervenire per dotare l’ospedale di un vero cimitero. Il re non si tirò indietro e affidò all’architetto Ferdinando Fuga l’incarico di un nuovo cimitero non lontano “dagli Incurabili”.

Nacque così il cimitero di Santa Maria del Popolo, meglio noto come cimitero delle 366 fosse, ma detto anche dei Tredici, dal nome della zona dove sorge.

Infatti, l’area, corrispondente all’attuale Poggioreale, all’epoca si chiamava monte Lo Trecco che dopo varie deformazioni diventò Leutrecco, poi trivice cioè tredici in dialetto napoletano.

Un camposanto destinato ai morti dell’ospedale degli Incurabili oltre che a quelli delle carceri, e ai poveri.

Questo sepolcreto è un geniale calendario perpetuo applicato all’architettura funeraria. Il primo esempio di razionalizzazione e regolamentazione delle sepolture.

 

Opera geniale di ingegneria cimiteriale

 

Il cimitero delle 366 fosse si sviluppa su un’area quadrangolare circoscritta su tre lati da muri perimetrali.  Sul quarto da una costruzione su base rettangolare della stessa lunghezza degli altri muri, divisa in tre settori.

Uno di questi settori è l’ingresso mentre negli altri si trovano la casa del custode, la sala mortuaria, la cappella e i servizi.

Lo spazio a cielo aperto, in basolato di pietra lavica, è suddiviso in 19 righe e altrettante colonne per totale di 360 fosse. Più una centrale riservata all’illuminazione e alla raccolta delle acque piovane.

Le altre cinque, più una per l’anno bisestile, si trovavano nell’atrio del settore centrale d’ingresso. Queste fosse furono eliminate in occasione di un ampliamento del cimitero nel 1871.

 

Il calendario perpetuo del cimitero delle 366 fosse

 

Ogni fossa è numerata cronologicamente a partire dal primo giorno dell’anno. Si apre sollevando, con una macchina artigianale, una pesante pietra di basalto di 80×80 centimetri.

La numerazione, con cifre arabe, prosegue a righe alternate per evitare che, raggiunta la fine di una riga, quella pesante macchina per il sollevamento dovesse tornare indietro di 19 fosse.

È lo stesso metodo usato con i buoi per arare i campi. È detto bustrofedico (dal greco “bue” e “volgere”. Anche alcune iscrizioni antiche alternavano il verso delle scritte.

Nelle intenzioni del re Nasone quello doveva essere un luogo dove anche agli ultimi potessero ricevere una degna sepoltura. L’architetto Fuga con la sua opera rese possibile questa volontà. Purtroppo, nella pratica quotidiana gli addetti all’inumazione si dimostrarono meno sensibili del re e dell’architetto.

 

Le sepolture rimasero indegne fino al 1877

 

La botola del giorno corrispondente alla numerazione veniva sollevata al tramonto e la “sepoltura” avveniva gettando i corpi nella fossa come sacchi di patate.

Le salme precipitavano per sette metri e si fermavano sui corpi in decomposizione dell’anno precedente, in una cisterna con base quadrata di 4,20 metri. 

Ma questa barbarie che fa rabbrividire noi che abbiamo un altro rispetto dei defunti, fece lo stesso effetto su una baronessa inglese che nel 1877 aveva perso la figlia per il colera.

La nobile britannica fece costruire un argano a cui era collegata una bara metallica che si abbassava lentamente. Giunta sul fondo, con sistema meccanico, faceva aprire un’anta e adagiava la salma prima di risalire.

 

Il cimitero delle 366 fosse anticipa l’Editto di Saint Cloud

 

Questo sepolcreto aveva due particolari che lo rendevano innovativo. Registrava le generalità del defunto (quando note) e la fossa di sepoltura. In questo modo offriva la possibilità a chi l’avesse voluto di pregare sulla tomba del proprio familiare o conoscente.

Inoltre, senza volerlo questo cimitero anticipò di quarant’anni l’Editto di Saint Cloud che prevedeva la collocazione dei sepolcreti fuori dalle mura cittadine, in luoghi arieggiati e soleggiati. L’editto napoleonico fu reso obbligatorio da Gioacchino Murat, allora re di Napoli, nel 1813.

Ma non fu accolto bene dai napoletani abituati alla sepoltura nelle chiese cittadine. Anche se ormai non era più concepibile.

Le terre sante delle strutture religiose erano strapiene e non erano il massimo sotto il profilo igienico sanitario. Senza contare gli odori nauseabondi che emanavano, ammorbando l’aria in gran parte della città.

 

Chiuso nel 1890 il cimitero delle 366 fosse è abbandonato a se stesso

 

Nel 1890 il cimitero delle 366 fosse fu chiuso perché non più adeguato. Però negli anni Sessanta del secolo scorso le pareti dei muri di cinta furono utilizzati per aggiungere dei loculi.

Ufficialmente vi sono sepolti 700.000 cadaveri, anche se c’è chi ritiene siano molti di più.  Un dato certo invece è che dalla dismissione è rimasto nell’abbandono più totale, restando chiuso anche ai visitatori fino al 2012.

Adesso è possibile visitarlo ma non c’è stata nessuna azione di recupero. Quindi la manutenzione ordinaria è affidata per intero al custode Antonio De Gregorio. Discendente della prima e unica famiglia che ha sempre curato questo camposanto.

 

Nel cimitero delle 366 fosse si poteva anche nascere

 

Infatti, il signor De Gregorio racconta di esservi addirittura nato, perché all’epoca si partoriva in casa. Cioè in quella stessa casa, situata nell’edificio di accesso al  cimitero. Abitata da sempre dalla sua famiglia.

Per quanto riguarda il recupero, non sembra vi sia nessun impegno concreto da parte della politica o delle istituzioni ad intervenire.

Ed è un peccato perché si tratta di un’opera di importanza storica unica nel suo genere. Con un adeguato “restyling” potrebbe diventare un’attrattiva turistica al pari del cimitero delle Fontanelle di cui è l’esatto opposto.

 

Informazioni utili

 

Il cimitero delle 366 si trova in via Fontanelle al Trivio 50. Una traversa del corso Malta. Per tutte le informazioni è possibile rivolgersi al signor Antonio De Gregorio 081 7806933 – 3331606015. Il sito ufficiale invece non risulta più attivo.

Anche il Comune di Napoli dedica una pagina alle informazioni sul Real Albergo dei Poveri e sul cimitero delle 366 fosse, peccato che in quella pagina non c’è scritto niente

© Riproduzione riservata 

2 commenti

  • Fiore Silvestro Barbato

    Di tutte le opere a carattere sociale che furono eseguite durente il regno di Carlo di Borbone e poi di Ferdinando, si cita sempre il regnante che metteva a disposizione il denaro necessario e l’architetto che le eseguiva. Mai una citazione però per Bernardo Tanucci che, in un clima pre-illuministico, suggeriva e proponeva le opere da realizzare.

    • Enzo Abramo

      Sono d’accordo. Infatti questo aspetto viene evidenziato nell’articolo dedicato a Ferdinando IV: “Ferdinando IV, re lazzarone: plebeo, bonario poi spietato”, nella sezione personaggi storici.

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