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Le più antiche caffetterie di Napoli: storia e curiosità

“A tazzulella ’e cafè” arrivò a Napoli nel 1700 con i primi caffè letterari. Tuttavia, si diffuse nel secolo successivo grazie all’apertura di un gran numero di caffetterie simili a quelle della Turchia.

Vale a dire caffetterie, che alcune fonti fanno risalire alla metà del ’500, ed erano una sorta di cenacolo che riuniva pensatori, uomini colti e “giocatori di scacchi”.

Anche le caffetterie ottocentesche napoletane erano, in massima parte, locali di degustazione. Ma principalmente luoghi d’incontro e di confronto per artisti e intellettuali.  

Dopo il successo delle prime iniziative a Napoli i caffè cominciarono a proliferare. In un lasso di tempo relativamente breve aprirono un centinaio di caffetterie in città. Almeno una trentina solo lungo via Toledo.

 

Dai letterati ad una cultura diversa

 

Situazione che contribuiva ad elettrizzare ulteriormente l’attività già allora frenetica di quella zona. Infatti, come annota lo scrittore francese Stendhal: caffetterie e gelaterie erano sempre piene di gente che gesticolava e parlava a voce alta, occupata a guardare i passanti.    

Spesso queste caffetterie avevano una clientela molto specifica. Il Caffè dei Tribunali, come è ovvio, era frequentato da avvocati e giuristi. Tra cui Alfredo De Marsico, Enrico De Nicola e Giovanni Porzio.

Ma non sempre gli avventori erano intellettuali e filosofi. Alcuni ospitavano una clientela di tutt’altra cultura.

Uno di questi era il Cafè d’o cecato (cieco). Raggruppava tra i suoi clienti il fior fiore della criminalità partenopea. Boss e mezze tacche della camorra. Esponenti del malaffare e della prostituzione.

Un locale dove la crème de la crème malavitosa aveva la possibilità di socializzare, stringere alleanze e scambiarsi le proprie esperienze.

Il proprietario era effettivamente un cieco ed era coadiuvato da un garzone in linea con la clientela. Il locale non aveva porte perché non chiudeva mai.

 

Nelle caffetterie si parla di poesia e si tramano cospirazioni

 

Le caffetterie più eleganti e raffinate erano quelle tra via Toledo e l’attuale piazza Plebiscito. Ambienti ricchi e sfarzosi creati per ospitare l’élite aristocratica e la ricca borghesia.

Ma anche personaggi illustri, poeti, scrittori, artisti, musicisti, viveur e… giovani studenti liberali con la fissa della rivoluzione.    

Rivoluzione come quella del 1799 che diede vita alla Repubblica Napolitana e costò diverse migliaia di morti. Oppure l’insurrezione costituzionale del 1848. Entrambe è lecito ipotizzare che maturarono e si svilupparono anche in questi ambienti.

 

Via Toledo una strada di caffetterie

 

Tra le caffetterie  più importanti dell’epoca sono da ricordare L’Aceniello (da acino ossia chicco di caffè) a Porta San Gennaro. Qui era possibile trovare quasi sempre Francesco Mastriani. Oppure il Turco a piazza Plebiscito.

Il Caffè del Molo, o delle Quattro Stagioni, nella zona del porto divenne famoso come redazione del giornale letterario omonimo

Il Caffè Testa d’oro, Caffè d’Ancora d’oro, Caffè dell’Aurora, Caffè Donzelli, Caffè Veneziano, Caffè Galliano, Caffè Colomba d’oro, tutti nella zona via Toledo.

Il Caffe del Commercio per la vicinanza con il teatro Mercadante era frequentato da attori e autori. Fra questi Eduardo Scarpetta e Francesco Mastriani quando non era all’Aceniello.

L’unica caffetteria del Vomero era il Caffè Don Cicco frequentato principalmente da poeti e musicisti. Il ritrovo dei giornalisti era il Caffè Europa. Il Caffè Calzona si trovava all’interno della Galleria Umberto I e si era dotato di un piccolo palcoscenico per spettacoli di varietà e cabaret.

 

Il mitico Caffè Trinacria e i suoi divani rossi

 

Tuttavia, tra questi e altri caffè storici che vanno ricordati in quanto precursori nobili dei bar di oggi, alcuni fanno parte della storia di un’epoca.

Primo fra tutti il Trinacria, una leggenda più che una caffetteria. Aperto nel 1810 in vico Taverna Penta a pochi passi da via Toledo è stato il caffè letterario per eccellenza.

Nelle sue elegantissime sale arredate con divani rossi e ricoperte di specchi si riunivano i maggiori esponenti dell’intellighenzia partenopea. E non solo.

Durante i moti del ’48 una palla di cannone si incastonò nel muro di una delle sale. Il proprietario decise di non farla rimuovere. Quindi di lasciarla come particolarità “architettonica” e portafortuna.

Alexandre Dumas padre durante il suo lungo soggiorno napoletano, dal 1861 al 1864 era un frequentatore abituale. Giacomo Leopardi si fermava per consumare avidamente almeno un paio di gelati, di cui era ghiottissimo. Poi proseguiva per piazza San Ferdinando, attuale piazza Plebiscito, per fermarsi al Caffè Italia. Da non confondere con l’omonimo caffè che sarebbe diventato il Trinacria dopo il 1860 quando fu acquistato dai fratelli Vacca.

Leopardi amava fermarsi a lungo ai tavolini di questa caffetteria. Beveva innumerevoli tazzine di caffè e ingurgitava in abbondanza ogni tipo di dolce. Nonostante fossero fortemente controindicati per le sue condizioni di salute.

 

Caffè Italia, gioia e dolore di Giacomo Leopardi

 

Ma quello che guastava i suoi pomeriggi in quel caffè era il rapporto conflittuale con gli altri letterati che lo frequentavano. Lui li disprezzava e quelli ricambiavano con estrema acredine.

Ne I nuovi credenti il poeta cita il Caffè Italia ed esprime il proprio disgusto per questi “intellettuali progressisti”, troppo sciocchi per essere infelici. Ne disegna un quadro feroce.

“Apostoli” del nuovo spiritualismo cattolico. Esponenti dello spiritualismo napoletano, cattolici per interesse e ottimisti per stoltezza. Intellettuali che, secondo la visione leopardiana, dissertano dei problemi del mondo e della società compiacendosi di loro stessi e delle proprie banalissime idee, mentre riuniti, sorseggiano una cioccolata calda alla caffetteria o pasteggiano al ristorante.

Sostiene che mentre consumano al bar o al ristorante disquisiscono dei problemi del mondo e della società compiacendosi di loro stessi, ognuno prendendosi molto sul serio e sorseggiando assieme alla cioccolata le proprie fessissime idee.

Ma il ritrovo preferito da Leopardi era molto probabilmente la Bottega del Caffè in Largo Carità.

Risalente agli inizi del Settecento, forse la prima caffetteria di Napoli, era divenuta nel frattempo Caffè delle Due Sicilie, pur conservando la storica insegna.

 

Gli squisiti sorbetti di Zi’ Pinto

 

Il motivo di questa predilezione erano gli squisiti sorbetti di Don Vito Pinto. Delle prelibatezze che associavano il sapore della cassata alla crema pasticciera di cui il poeta, tanto per cambiare, era inappagabile estimatore.

Don Vito, detto Zi’ Pinto, aveva trasformato quella del “sorbettaio” in arte. Come gli riconosce lo stesso Leopardi in un verso divenuto famoso: “Quella grand’arte onde barone è Vito”.

Barone perché con le sue squisitezze, tra le quali bisogna annoverare anche cassate, spumoni e granite, Pinto era divenuto talmente famoso e ricco da potersi comprare un titolo nobiliare.

 

Una catena di caffetterie dalla Svizzera

 

Un caffè storico molto importante, nato verso la fine del Settecento, ma di cui non si hanno molte notizie è il Caffè dell’Infrascata, la ’Nfrascata in dialetto, corrispondente all’attuale via Salvator Rosa.

Si sa che era un ritrovo di giovani liberali e rivoluzionari. Quindi non molto gradito alle autorità che mal sopportavano quel concentrato di riottose teste calde.

Intorno al 1827 approdò a Napoli un imprenditore svizzero, Luigi Caflisch. Il lungimirante tirolese aveva una conoscenza diretta del settore.

Si rese conto prima di tanti altri che il caffè poteva diventare una sostanziosa fonte di guadagno. In breve tempo aprì una vera e propria catena di caffè-pasticceria nei punti nevralgici della città.

Dopo cinque anni, la sua azienda aveva otto negozi sull’intero territorio cittadino e 250 dipendenti occupati.

Oggi purtroppo questo piccolo impero si è dissolto nello stillicidio che da anni affonda tante attività imprenditoriali.

Il Caffè d’Europa dei coniugi Thevenin aprì i suoi raffinati locali in piazza san Ferdinando, attuale piazza Trieste e Trento, nel 1845.

Il successo di questa caffetteria fu determinato anche dallo charme e dalle capacità comunicative di madame Thevenin, parigina trapiantata a Napoli.

Il suo fascino e la sua intelligenza furono la calamita che attrasse rapidamente una clientela facoltosa e ricercata.

 

Scontro finale tra le birreria-caffetteria

 

Anche piazza Municipio, allora piazza Castello, aveva la sua caffetteria di richiamo nonostante si chiamasse Birreria dello Strasburgo.

Oggi questo abbinamento ci può sembrare strano ma all’epoca, come vedremo, poteva diventare un punto di forza. Infatti, il caffè e la birra erano le bevande più in voga.

Anche queste sale erano un elegante punto d’incontro dove si consumava ascoltando musica concertistica. Tra i clienti abituali c’era Ferdinando Russo.

E c’era Salvatore Di Giacomo. Ma questa non è una novità. Il poeta era frequentatore abituale di tutti locali più gettonati.

Al Caffè Diodati di piazza Dante si portò dietro anche San Pietro e il Padreterno, che nel poemetto Lassammo fa’ a Dio, erano venuti come turisti a Napoli in occasione della Pasqua.

Abbiamo lasciato per ultimi i fratelli Vacca perché sono stati dei maghi nell’imprenditoria del caffè. Furono senza ombra di dubbio gli imprenditori più attenti e lungimiranti del settore. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

Roberto e Mariano Vacca aprirono la prima delle loro caffetterie nell’attuale Villa Comunale, a quei tempi Villa Reale.

 

Un musicista d’eccellenza per uno chalet nella Villa Comunale 

 

Il Caffè Vacca non aveva nulla in comune con i caffè letterari dell’epoca. Era in pratica quello che noi oggi definiremmo uno chalet. Simile a quelli di Mergellina, ma in particolare proprio a quelli dell’attuale Villa Comunale.

Come tale registrava il tutto esaurito la domenica e nei giorni festivi. Era un ambiente dove, in primo luogo, ci si rilassava. Tranquille famiglie borghesi sedevano ai tavolini e consumando ascoltavano i concerti eseguiti da una banda alla Cassa armonica.

Il direttore d’orchestra era un maestro molto apprezzato anche oltre confine: Raffaele Caravaglios.

A ravvivare l’atmosfera ci pensavano i bambini scorrazzando e giocando lungo i viali.

Durante la settimana la Villa reale diventava un’oasi di tranquillità. Ma per i fratelli Vacca erano giorni di magra. Solo qualche coppietta e rari clienti. Ma tra questi c’era ancora una volta Salvatore Di Giacomo. Approfittava proprio della serenità del luogo per concentrarsi su qualche lavoro.

Nel 1860, poco dopo l’Unità d’Italia aprì in piazza Plebiscito una caffetteria la cui magnificenza non aveva precedenti. Il Gran Caffè occupava il piano terra di un’ala dell’attuale Prefettura.

La clientela riuniva il meglio dell’alta società, intellettuali, artisti e grandi celebrità. Per l’ampiezza e il numero delle sue aperture era detto il Caffè delle sette porte.

 

Le follie di don Vincenzo Apuzzo per il Gran Caffè

 

Ma il proprietario, Vincenzo Apuzzo, deciso a primeggiare e cancellare la concorrenza fu preso da una sfrenata mania di grandezza. In particolare, aveva nel mirino i fratelli Vacca, proprietari del Caffè d’Europa nella vicina via Chiaia,

Si abbandonò alle spese più incontrollate pur di brillare e ci riuscì. Ma dilapidando tutte le sue risorse. Forse avrebbe potuto recuperare sia pure a stento. Ma il colera troncò ogni speranza. Era il 1885 e don Vincenzo Apuzzo fu costretto a chiudere le sette porte.     

Nei 25 anni della sua esistenza lo splendore del Gran Caffè aveva ottenuto persino il riconoscimento di Fornitore della Real Casa.

I suoi pasticcieri e gelatai erano dei top player che lo stesso don Vincenzo aveva spedito in Francia per perfezionarsi.

Nelle sue feste e in ogni manifestazione non poneva limiti di spesa. Pretendeva il meglio di tutto per i suoi ospiti e per le sue campagne promozionali.

Con il crollo di Apuzzo, Mariano Vacca, rimasto solo dopo la morte del fratello si trovò senza colpo ferire padrone del campo.

 

L’architetto Curri crea una delle più belle caffetterie d’Italia

 

Assunse una posizione dominante nell’attuale piazza Trieste e Trento. Cinque anni dopo decise di spiccare il grande salto.

Prese in fitto i locali dell’ex Gran Caffè. Ne affidò i lavori e le decorazioni a uno dei più affermati architetti del momento: Antonio Curri. 

L’architetto pugliese non tradì le aspettative. Lo arredò in stile Liberty. Si affidò ai migliori artisti della scuola napoletana per i dipinti, gli stucchi e le sculture.

Ma Curri, a parte la magnificenza della sua opera, fornì a don Mariano una formula vincente per la nascente attività.

Suggerì di utilizzare una proposta mista caffè-birra. La chiave del successo sarebbe stata la fusione tra il caldo meridionale con il freddo nordico. Oppure il contrasto tra i colori scuri del Sud e quelli biondi del Nord.

Tanta poesia per nascondere il vero intento: sferrare un colpo basso alla Birreria Strasburgo di piazza Castello.

Un colpo che andò oltre ogni auspicabile previsione e risultò mortale. La birreria di Peppino Berenazone fu costretta a chiudere e il neonato Gambrinus acquisì la sua clientela di prim’ordine.

 

Gambrinus ovvero Ian Primus, santo patrono della birra

 

Gambrinus, infatti, fu proprio il nome che venne dato alla neonata caffetteria e che ancor oggi ben conosciamo. Tale nome venne attribuito in onore di Ian Primus, leggendario re delle Fiandre, attuale Belgio, ritenuto il santo protettore della birra.  

Il 3 novembre 1890 fu inaugurata la Birreria Caffè Gambrinus e da allora è entrato a far parte della storia di Napoli. È una delle perle della città. Un tempio del caffè.

Questi quasi 130 anni del Gambrinus sono stati ricchi di successi. Un punto d’incontro di politici, scrittori, poeti, avvocati, artisti, attori, musicisti e personalità di spicco di ogni campo.

Ma non sono mancati i momenti critici. Primo fra tutti quel 5 agosto 1938. I fascisti con un decreto prefettizio lo fecero chiudere. Ufficialmente perché troppo rumoroso e tale da creare disturbo alla quiete pubblica notturna.

In effetti si trattò di una motivazione di comodo. La realtà era tutt’altra. Nelle sale del Gambrinus si riunivano e discutevano delle teste “pensanti” e di conseguenza troppo fastidiose per il regime.

 

Il Gran Caffè Gambrinus risorge negli anni Settanta

 

Dal quel 1938 il Gambrinus è rimasto chiuso fino agli anni Settanta. Poi dapprima l’imprenditore Luciano Michele Sergio e successivamente i figli Antonio e Arturo hanno riportato agli antichi splendori le sale del Gran Caffè.

Se si volessero registrare tutti i personaggi di spicco che in oltre un secolo si sono fermati in quella caffetteria servirebbe un guest book di almeno cento pagine.

Tra gli habitué, l’immancabile Salvatore Di Giacomo, seduto a uno di quei tavolini avrebbe scritto Marechiare. Gabriele D’Annunzio, invece ’A vucchella, su un tovagliolino del caffè. Per una scommessa con Ferdinando Russo. Ma pare sia una leggenda inventata ad hoc. Molto più prosaicamente, il Vate doveva saldare dei conti col proprietario del Caffè.

Comunque volendo citare solo qualcuno dei grandi nomi che hanno frequentato il Gambrinus basta ricordare Oscar Wilde, la principessa Sissi, Benedetto Croce, Ernest Hemingway, Jean Paul Sartre, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Enrico De Nicola, Émile Zola, Guy de Maupassant, Jules Renard, Ardengo Soffici, Vincenzo Gemito, Camille Flammarion.

Il Gambrinus è purtroppo anche l’unico sopravvissuto di tutte le caffetterie storiche che abbiamo visto in precedenza.

© Riproduzione riservata

Nell’immagine: Kunstler im Cafe Greco in Rome, opera di Ludwig Passini 

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