storia della canzone napoletana

Storia della canzone napoletana dalle origini all’epoca d’oro

Questa storia illustra i passaggi più significativi della canzone napoletana dal 1200 al periodo d’oro, compreso tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Un percorso parallelo alla storia di Napoli, ai movimenti culturali, artistici, musicali. Insieme ai personaggi celebri, ai poeti, ai musicisti, ai sovrani illuminati, alle regine capricciose, ai grandi nomi della cultura e dell’arte, alle cronache, agli aneddoti.

 

  1. E all’inizio fu… il canto di Partenope
  2. La musica ai tempi di Federico II
  3. I canti delle lavandaie 
  4. Il dialetto diventa lingua ufficiale
  5. Lo sciagurato Seicento di Napoli
  6. Nasce il Barocco napoletano
  7. La Tarantella e ai misteri di Michelemmà
  8. Melodramma, opera buffa e madrigale di sangue
  9. Da un grande sovrano a un re lazzarone
  10. 1799: Repubblica Napoletana e Sanfedisti
  11. Canti del molo, improvvisatori e copielle
  12. Piedigrotta, festival napoletano, festival di Napoli
  13. L’epoca d’oro e le canzoni d’autore

 

E all’inizio fu… il canto di Partenope

 

Il bel canto a Napoli è nato prima ancora della sua fondazione. Era il canto melodioso e ammaliante della Sirena Partenope, dalle cui spoglie, trascinate dalle onde del mare, sugli scogli dell’isolotto di Megaride, prese forma la città di Napoli.

Infatti, secondo la leggenda, Partenope e le sue sorelle Leucosia e Ligea, furiose per essere state beffate da Ulisse, che con uno stratagemma era sopravvissuto alla loro melodia fatale, si erano uccise lanciandosi da una rupe della propria isola.

Ma per passare dalla leggenda alla storia della canzone napoletana bisogna fare un salto molto lungo e arrivare al 1200, quando a Napoli regnava Federico II di Svevia, lo stupor mondi.

Così dopo la Sirena toccò alle Fate intonare i primi canti della tradizione popolare napoletana. Queste fate però non avevano la bacchetta magica né poteri sovrannaturali, erano le lavandaie.

 

Il duro mestiere delle fate

 

Probabilmente erano state soprannominate fate perché, ad osservarle mentre stendevano il bucato per asciugare, davano l’impressione di comparire e scomparire tra la biancheria svolazzante.  

Era un mestiere molto apprezzato e veniva tramandato da madre a figlia. Provenivano da diverse parti del circondario e del centro storico di Napoli. Le più apprezzate erano quelle di Antignano, cioè della collina del Vomero.

Era un lavoro retribuito discretamente ma molto duro. Le “lavannare” dovevano recarsi a casa dei clienti, che all’epoca generalmente erano le famiglie nobili. Ritirare la biancheria da lavare e trasportarla in grandi cesti o con “mappate”, cioè raggruppata in un panno più grande che conteneva tutto.

 

Una preghiera alla generosità del Sole

 

Con quel carico dovevano quindi raggiungere la fonte, il pozzo o il ruscello dove abitualmente lavavano e mettevano ad asciugare la biancheria.

Con la speranza che il tempo fosse clemente e il sole generoso. Infatti, la più antica canzone popolare napoletana recita: jesce Sole / nun te fa suspirà, cioè Splendi Sole / non farti desiderare.

Una vera preghiera al Sole che riveste un ruolo fondamentale nel completamento del loro lavoro. Canti propiziatori, quelli delle lavandaie, ma anche funzionali per mantenere scandire durante il lavoro e incitarsi ad andare avanti.  

 

 

statua Federico II
L’imperatore Federico II di Svevia

 

La musica ai tempi di Federico II

 

Uomo di grande cultura lui stesso, amava circondarsi da poeti, filosofi, artisti, giuristi ecc.

Fu lui a fondare, nel 1224, la prima Università statale della storia, quella che attualmente porta il suo nome. All’epoca, fra tutte le università esistenti solo quelle di Parigi e di Bologna potevano considerarsi al suo livello.

Non poteva avere la stessa considerazione per i musicisti che alla sua corte erano solo giullari o menestrelli. E la musica aveva la sola funzione di allietare i banchetti, i tornei di caccia o anche, tenere alto il morale delle truppe durante le campagne militari.

Tuttavia, ospitò sempre con piacere trovatori famosi o suonatori orientali, in particolare Arabi, con la loro musica e loro strumenti esotici ma, in genere, tutti i cantori che portavano ventate di novità.

Quindi non si può dire che fosse contrario alle varie espressioni musicali. Meno che mai lo sarebbe stato alle serenate se non avessero travalicato i limiti della sopportazione.

Ma purtroppo gli strimpellatori di serenate erano scatenati e da amanti disperati si erano trasformati in un incubo per la città.

 

L’imperatore mette un freno alle serenate

 

In maniera indiretta anche per l’imperatore erano diventati un tormento. Non perché andassero a suonare sotto le sue finestre ma per le incessanti proteste che Federico doveva subire da una parte del popolo esasperato.

All’epoca “andava forte” la serenata, ma anche la sua gemella diurna, la mattinata. Progenitrici rispettivamente del filone di Voce ‘e notte e della corrente Era de maggio.

Per tanti napoletani, godere sonni tranquilli era diventata una pia illusione, nonostante gli interventi della gendarmeria.

Ormai il bicchiere era stracolmo e il sovrano fu costretto ad intervenire con un editto per proibire il canto notturno.

Norma del tutto inefficace. I tormentati amanti, nonostante le pesanti sanzioni e i numerosi arresti, continuarono a inondare la città delle loro “dolenti note”.

 

Libertà! Costi quel costi. Ma fino ad un certo punto…

 

Un po’ quello che è successo, ai giorni nostri, nelle prime settimane del cosiddetto lockdown, cioè quando bisognava restare a casa a causa del Coronavirus. Sanzioni per migliaia di euro non sono servite , inizialmente, contro gli “spiriti liberi” che si rifiutavano di prendere atto della situazione.

Ma nel giro di qualche settimana, anche i più cocciuti anarchici, dovettero rendersi conto che i controlli erano troppo stringenti e si adeguarono, perché il loro presunto desiderio di libertà oltre che posticcio era troppo oneroso.

Al contrario dei nostri attuali connazionali, quelli del XIII secolo furono più ostinati e non ci fu verso di zittirli. Il desiderio di esternare la propria passione alla donna amata era incontrollabile.

E alla fine la spuntarono. Manfredi, figlio naturale di Federico II salito al trono abolì l’editto. Ma non tanto perché stanco di quella battaglia persa quanto perché, si dice, lui stesso scendesse di notte nelle strade per unirsi ai musici fracassoni, partecipare e ascoltare la “bell’arte” di cui era innamorato.

Dopo questo autorevole via libera, la serenata divenne un male incurabile per la pace di tutti quei napoletani che aspiravano ad un sonno tranquillo.

 

I canti delle lavandaie nella storia della canzone napoletana

 

A distanza di quasi un secolo, la serenata non aveva perso la sua invadenza. E nel 1335, Roberto d’Angiò fu costretto a ripristinare l’editto che vietava la caciara al chiaro di Luna, per disturbo alla quiete pubblica. Non sappiamo però se questo nuovo editto ebbe maggior fortuna del precedente.

Anche perché, in fin dei conti, questa irrefrenabile passione per il canto e la musica, esprimeva il desiderio di un popolo intero ad affrontare la vita con spirito sempre positivo.

Grazie alla vivacità culturale ereditata dai fondatori ellenici e arricchita nei secoli grazie alle influenze di tanti popoli e civiltà diverse con cui è venuta in contatto. Napoli, nel bene e nel male, è stata sempre una città multietnica. Una città cosmopolita per eccellenza.

Ma il XIII secolo, come già detto, non fu caratterizzato solo dalle serenate e dalla musica trovadorica. Furono gli anni a cui si fanno risalire le prime espressioni della canzone popolare napoletana.

Come Il canto delle lavandaie di Antignano, che è il più noto tra quelli che ci sono pervenuti.

 

 

E tra questi canti si trova quella che è ritenuta, in assoluto, la prima canzone napoletana popolare: Jesce sole

 

 

Il ‘ritornello delle lavandaie’ è un canto di protesta?

 

Secondo alcuni storici della canzone questi canti sarebbero del Quattrocento. Canti di protesta contro Alfonso d’Aragona venuto meno alla promessa di redistribuzione delle terre.

Questa convinzione si fonda sull’interpretazione di alcuni versi del Canto delle lavandaie: Tu m’aje prummise quatte muccatora cioè Tu m’hai promesso quattro fazzoletti. Secondo questa teoria, fazzoletti stanno per appezzamenti di terra. Quelli non concessi. 

 

 

Ipotesi che non appare suffragata da prove concrete e contraddetta dai risultati scaturiti dalle ricerche fatte da Roberto De Simone per la realizzazione della Gatta Cenerentola, una sua opera teatrale. De Simone non vede simbolismi o significati nascosti in questi testi.

Si tratta di canti spontanei, tramandati oralmente per il piacere di cantare insieme. Nel caso delle lavandaie erano una sorta di filastrocche con le quali si accompagnavano, si incitavano e forse ritmavano il tempo del loro duro lavoro.

La seconda metà del XIII secolo visse anni difficili, caratterizzati da guerre, sommosse e congiure. Con i papi in prima linea a determinare, con la massima spietata disinvoltura, i destini delle parti in lotta.

 

Il Regno di Napoli ai tempi di Carlo d’Angiò

 

Alla grandezza di Federico II fecero seguito delle figure molto sbiadite. A cominciare dal figlio Corrado IV che gli successe nel 1250 ma fu duramente avversato dal popolo napoletano, sostenuto da Innocenzo IV.

Il Papa che, avendo scomunicato il padre, si rifiutava di riconoscere la successione del figlio al Regno di Sicilia

Corrado però si trovava in Germania e sul trono di Napoli sedeva Manfredi come tutore del piccolo Corradino di appena due anni, nipote di Federico II.

I rapporti tra i due fratelli non erano proprio amorevoli. Manfredi aveva tutte le intenzioni di tenere per sé quel trono. E Corrado ovviamente non era d’accordo.

Ma tra i due litiganti si mise di traverso, tanto per cambiare, un Papa. Urbano IV invitò Carlo d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII detto il Leone, a prendersi lui quel trono.

 

Carlo d'Angiò
Carlo d’Angiò

 

Carlo arrivò in Campania con un esercito di 30.000 uomini ma non trovò molti ostacoli, poiché i soliti baroni, non ebbero scrupoli nello schierarsi contro Manfredi, il loro re.

 

Gli Angioini portano la capitale del Regno da Palermo a Napoli

 

Lo scontro decisivo avvenne a Benevento dove Manfredi fu sconfitto e ucciso. Carlo d’Angiò, insediatosi a Napoli come re di Sicilia, decise di trasferire la capitale da Palermo alla città di Partenope, facendo arrabbiare molto i palermitani.

Ma la scelta non fu dettata da un capriccio. La Sicilia era una roccaforte dei sovrani svevi, per cui gli angioini sapevano di non potersi fidare di quella popolazione.

E a dirla tutta, Carlo con la sua politica ce la mise tutta per farsi odiare. E vi riuscì! I Vespri siciliani con la scia di sangue che ne seguì fu solo l’inevitabile atto conclusivo della vicenda.

 

La crudele decapitazione del sedicenne Corradino di Svevia

 

Carlo d’Angiò non fu un cattivo re per Napoli. La città ebbe uno straordinario sviluppo economico e demografico divenendo la prima metropoli italiana, seconda in Europa dopo Parigi. Introdusse degli organi “democratici”, i Sedili, che portavano all’attenzione del sovrano le richieste del popolo.

Purtroppo, non gli fa onore la spietata decapitazione del giovane Corradino di Svevia a Campo Moricino, l’attuale piazza Mercato, divenuta tristemente famosa nella storia quale luogo designato per le esecuzioni capitali di Napoli.

Corradino aveva appena 16 anni, ed era assolutamente incolpevole degli eventi di cui era accusato. E Carlo lo sapeva benissimo.

 

Il dialetto diventa lingua ufficiale del Regno di Napoli

 

Il Trecento fu il secolo dell’Ars Nova, un sistema musicale rinnovato rispetto ai secoli precedenti. Cominciarono a prendere forma anche componimenti musicali che troveranno un notevole sviluppo nei secoli successivi.

Forme musicali però lontane dai gusti del popolo che le riteneva stucchevoli e prive della freschezza e della spontaneità del canto popolare, specchio della loro realtà quotidiana.

Questi canti venivano tramandati oralmente per cui nel corso degli anni, o dei secoli, subivano numerose variazioni. Almeno fino quando qualcuno le ha trascritte nella forma in cui sono arrivate a noi.

Qualche testimonianza della Napoli trecentesca, e della propensione dei napoletani al canto la fornisce, nei suoi scritti, anche Giovanni Boccaccio che visse per 13 anni nella città partenopea.

Dall’adolescenza ai 23 anni quando, con grande dispiacere, fu costretto ad abbandonarla per tornare a Certaldo a causa del tracollo finanziario del padre.   

Una partenza ancora più dolorosa perché lo allontanava dalla sua Fiammetta, che si pensa fosse Maria d’Aquino, figlia naturale di Roberto d’Angiò.

 

Boccaccio, Giotto e Petrarca alla corte di Roberto d’Angiò

Nel 1303, salì al trono un altro grande re angioino, Roberto detto il Saggio. Come Federico II in precedenza, favorì la crescita intellettuale del regno circondandosi di artisti e letterati di grande spessore. Tanto per fare alcuni dei nomi: Giovanni Boccaccio, Giotto e Francesco Petrarca.

E nel 1343, gli successe la nipote Giovanna I che in quanto a saggezza dallo zio non aveva ereditato nulla. Si distinse per i suoi vizi, la sua frivolezza e la scarsa capacità di guidare il suo stato, in un periodo di grande complessità sotto il profilo sociopolitico e bellico.

Durante i suoi 40 anni di regno, Napoli fu tormentata da epidemie, sommosse, conflitti e, in particolare dalle incursioni di Luigi I il Grande, re d’Ungheria e fratello di Andrea d’Angiò, marito di Giovanna sospettata di averlo fatto uccidere. Accusa non del tutto infondata.    

Nel periodo angioino furono eretti a Napoli Castel Sant’Elmo, Castel Nuovo, più noto come Maschio Angioino. E le chiese di Santa Chiara e San Domenico Maggiore.

 

Con Alfonso d’Aragona il dialetto napoletano diventa lingua ufficiale

 

Nel Quattrocento, per la poesia, la letteratura e quindi anche per i testi musicali si aprirono nuove prospettive. Avvenne una sorta di rivoluzione dopo che il nuovo re, Alfonso d’Aragona, elevò il dialetto napoletano alla dignità di lingua ufficiale del regno di Napoli.

Documenti, atti pubblici, leggi e quant’altro dovevano essere stilati in dialetto, divenuto lingua napoletana.

Il sovrano sostenne con grande prodigalità la cultura, offrendo il giusto supporto affinché anche a Napoli si potesse respirare il clima umanistico dell’epoca.

Giovanni Pontano fu chiamato a dirigere un’Accademia di scienze, lettere e arti, che fu la prima in Italia e oggi porta il suo nome.

Una preziosa Biblioteca di codici miniati fu istituita in Castel Nuovo e nacque una Scuola di musica che poté contare sulla partecipazione di illustri compositori dell’epoca, sia italiani che stranieri.

 

alfonso d'aragona
Alfonso d’Aragona.

 

La musica polifonica e i primi passi della villanella

 

La musica diventò polifonica per la delizia dei palati più raffinati dell’aristocrazia. Strambotti, sonetti, e in particolare anche se più tardi, il madrigale. Ma al contrario lontana dai gusti e dalla sensibilità popolare che continuava a prediligere la vivace spontaneità dei suoi canti.

Le ballate popolari e le frottole erano delle divagazioni malinconiche e allegre ma in ogni caso consone ai gusti e allo spirito della gente più semplice.

Intanto, verso la fine del secolo, mosse i primi passi, una forma di poesia popolare in musica che dominerà il panorama musicale fino ai primi anni del Seicento: la villanella.

Per comprendere il successo della villanella bisogna considerarne la duttilità. La stessa natura poetica non sempre era strettamente popolare ma spesso assumeva uno stile molto raffinato, gradito agli ambienti aristocratici e di corte.

Date le sue origini partenopee era nota anche come Canzone alla napolitana o villanesca, per i temi che di solito trattava. Ma ad un’attenta lettura riprendeva, anche se alla lontana, i temi cari alle antiche poesie toscane e siciliane.

Una musica che per natura nasce dal popolo per il popolo. Canti dell’allegria e dei sentimenti popolari. Si ascoltavano nelle strade, nelle piazze, nei vicoli e nelle feste, anticipando in qualche modo la Piedigrotta.

 

La villanella da Napoli conquista l’Italia e l’Europa

 

Nel Cinquecento, la villanella raggiunse la sua massima espansione, anche territoriale, arrivando in altre corti d’Italia e d’Europa. Gli autori però dovettero fare un passo avanti rispetto a quella della tradizione popolare.

Il nuovo pubblico era più esigente e lontano dalla cultura napoletana, per cui non avrebbe potuto comprenderne appieno la forma tipica.

Infatti, la struttura naturale della villanella era essenziale senza inutili ampollosità. Gli argomenti prediletti sono quelli bucolici, amorosi, passionali, sentimentali ma senza tralasciare quelli satirici, burleschi e libidinosi.

Una delle canzoni più belle, ripresa da un’antica villanella e rielaborata nel 1825 dall’abate Genoino e da Guglielmo Cottrau è Fenesta vascia di autore anonimo.

 

 

La bellezza di questa canzone nella versione ottocentesca fece correre la fantasia di qualche “esperto” che le volle attribuire una paternità più nobile, facendo infuriare Cottrau:

«… non posso trattenere la mia meraviglia quando vedo che alcuni critici non si danno la briga di consultare documenti autentici come quelli che io presento e, su mere, vaghe induzioni non si peritano di dichiarare che tale canzone è stata scritta da Tizio o da Caio e mettono fuori nome di celebri Maestri come Bellini e Donizetti

 

Fenesta ca lucive, l’atroce separazione dall’amata

 

Fenesta ca lucive, canzone del Seicento, oltre alla finestra, ha molti punti di contatto con Fenesta vascia. Canzone di di autore anonimo o di un prestigioso compositore. In questo caso Vincenzo Bellini. Rielaborata e pubblicata da Guglielmo  Cottrau nel 1843. 

Tra i più accaniti sostenitori di Bellini autore della canzone ci fu Salvatore Di Giacomo ma gli esperti dubitano che gli elementi a sostegno della sua tesi siano validi. 

Tra l’altro, né i biografi fi Bellini né uno dei suoi migliori amici, Francesco Florimo, molto attento alla produzione musicale del maestro catanese, vi hanno mai fatto riferimento.

 

Due storie senza analogie

 

Appare invece improbabile, che Fenesta ca lucive tragga ispirazione da una poesia siciliana del Seicento di Matteo di Ganci, che racconta la tragica vicenda della Baronessa di Carini.

Anche volendo tener conto dei cambiamenti che ha subito la lirica durante il suo percorso “orale” tra la Sicilia e la Campania, è diffiocile cogliere l’analogia tra le due storie.

La baronessa Laura Lanza di Trabia era sposata da 20 anni con Vincenzo La Grua-Talamanca, e dal matrimonio sono nati anche otto figli. Ma da 18 anni intratteneva una relazione amorosa con il gugino di don Vincenzo, Ludovico Vernagallo.

Quando il padre della baronessa venne a conoscenza della tresca attirò i due amanti in una trappola e li uccise .

La storia di Fenesta che lucive invece racconta di un uomo che tornando dopo una lunga assenza scopre che nel frattempo la sua amata è morta.

Lo immagine già avvicinandosi alla casa della ragazza. La finesta della sua camera solitamente illuminata, quella sera era spenta.

La sorella della defunta gli racconta quello che è successo e comunque gli conferma la morte dell’amore suo.

All’uomo non resta che la disperazione e il rimpianto di non essere stato più vicino alla sua innamorata.

Fenesta ca lucive, strazianti versi d’amore

 

 

 

Lo sciagurato Seicento di Napoli: il Vesuvio, Masaniello e la peste

 

Nei primi anni del Seicento la villanella esaurì il suo ciclo. Il madrigale invece si impose per la sua qualità degli autori, la sua tecnica superiore e i temi di maggiore impegno. Niente vivacità e gaiezza né toni popolareschi. Prevalenti i temi drammatici.

Il madrigale determinò una crescita tecnico-artistica più raffinata che porterà alla musica da camera. E porrà le basi per quello che sarà il melodramma.  

Per Napoli invece iniziò uno dei secoli più disgraziati della sua storia.

Il 16 dicembre del 1631, dopo 130 anni, e numerosi eventi premonitori, il Vesuvio colpì con una delle più violente eruzioni della storia di Napoli. Equiparabile per violenza solo a quella famosa di Pompei nel 78 d.C.

E a una del 472, quando l’eruzione scagliò nell’atmosfera una quantità di ceneri paragonabile solo a quelle prodotte dalla caldera di un supervulcano, come quello dei Campi Flegrei. L’enorme nube raggiunse ogni parte d’Europa.

E arrivò persino sulle rive del Bosforo, in Turchia, e a Costantinopoli, allora capitale dell’Impero Romano d’Oriente che già stava vivendo giorni terribili. Infatti, un violento terremoto, con epicentro ad Antiochia, stava causando morte e distruzione.

Nell’eruzione del 1631 quasi tutti paesi alle pendici del Vesuvio furono devastati con almeno 4.000 vittime accertate e un numero imprecisato di animali che, come nel caso di bovini, maiali, cavalli, rappresentavano la fonte di sopravvivenza per molti.

 

Nel 1647, la rivolta di Masaniello

 

Una terribile crisi socioeconomica, aggravata dalle enormi spese belliche, finì per gravare sul popolo, con balzelli sempre più oppressivi.

Spesso oltre il limite della tollerabilità. Come nel 1647 quando il viceré Rodrigo Ponce de Leòn impose un’ulteriore tassa sulla frutta, alimento di sopravvivenza per i più poveri.

Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.  Il popolo insorse e scoppiò la sanguinosa rivolta capeggiata da Masaniello.

 

masaniello ritratto
Masaniello ritratto da Micco Spadaro al secolo Domenico Gargiulo

 

Tuttavia, questi tristi eventi erano ancora niente rispetto a quello che doveva venire: la peste.

 

Nel 1656 la peste, 250.000 su una popolazione di 450.000

 

Nel 1656 questa epidemia, anche se colpì buona parte dell’Italia, fu un’ecatombe nel regno di Napoli. Nella sola capitale, con il suo circondario, morirono oltre la metà della popolazione, che da 450mila si ridusse a 200mila.

Per seppellire questo enorme numero di cadaveri vennero utilizzate le cave di tufo del vallone della Sanità, antichissimo quartiere di Napoli. Cave, da cui veniva estratto il tufo per le costruzioni della città, ed erano state in passato necropoli pagana e poi antico cimitero cristiano.

Oggi conosciamo questo ossario come Cimitero delle Fontanelle che da allora, e per almeno due secoli, ha continuato ad accogliere le migliaia di morti delle tante sciagure che hanno colpito la città di Napoli.

Attualmente si presume vi siano raccolti 40mila resti umani. Numero riferito, ovviamente, solo a quelli che si trovano in superfice. Infatti, per la sola peste del 1654 vi furono sepolti oltre 250.000 cadaveri.

 

Un milione di cadaveri nel Cimitero delle Fontanelle?

 

E nei due secoli successivi Napoli subì: cinque eruzioni, tre rivolte popolari, tre terribili terremoti, epidemie e carestie.

Quindi ancora migliaia di vittime sotterrate in quel cimitero. A cui si sommarono le salme dei defunti che, per legge, non potevano più restare sepolti nelle parrocchie.

Un numero spaventoso e a quanto pare quantificato. Infatti, appena sotto il suolo di calpestio si trova una cavea che scende ad una profondità di 4 metri e contiene centinaia di migliaia di corpi compressi.

Secondo alcuni studi e rilevazioni, effettuati con un geo-radar, sarebbero oltre un milione i morti sotterrati nel Cimitero delle Fontanelle.

 

Cimitero delle Fontanelle
Cimitero delle Fontanelle

 

Verso la metà del Seicento nasce il Barocco napoletano

 

Intorno alla metà del Seicento però, aldilà dei tanti guai, nacque il Barocco napoletano. Una forma artistica e architettonica riconoscibile dagli eccessi decorativi che ne caratterizzano le sculture e le costruzioni.

All’epoca il Barocco non godette di grande considerazione. Anzi era ritenuto l’antitesi del buon gusto, stravagante e offensivo dei canoni fondamentali dell’arte. In effetti, anche se questo stile è stato rivalutato nel XX secolo, ancora oggi tendiamo ad usare questo termine per indicare qualcosa di pretenzioso ma segnato dal cattivo gusto.   

Ma è assolutamente falso. Nonostante certe critiche eccessive il Barocco, specie a Napoli, produsse opere di straordinaria bellezza.  

 

L’architetto stacanovista Cosimo Fanzago

 

Anche grazie all’arrivo all’ombra del Vesuvio di architetti di grande valore, su tutti Cosimo Fanzago, lombardo, che arrivò al seguito di Giovanni Antonio Dosio.

Cosimo era un vero stakanovista e lo dimostra l’enorme numero di progetti architettonici e scultorei realizzati nella sola città di Napoli.

Tuttavia, l’artista, oltre alla gran mole di lavoro che portava a termine, accettava ogni commessa che gli veniva proposta, aldilà di ogni possibilità materiale di poterla realizzare. Questo fu causa di numerose controversie legali con i suoi committenti.

Su suo progetto furono edificate molte chiese tra cui quella dell’Ascensione a Chiaia, di Santa Maria dei Monti, di San Giuseppe dei Vecchi e di Santa Maria degli Angeli alle Croci, Santa Maria di Costantinopoli. La Basilica di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone. La cancellata della Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli. Il Palazzo Donn’Anna a Posillipo. Questo solo per citare una piccolissima parte delle sue opere.

 

Palazzo Donn'Anna
Palazzo Donn’Anna

 

I capolavori di Giovanni Antonio Dosio e Francesco Grimaldi

 

Tra i grandi architetti giunti a Napoli in quegli anni bisogna annoverare anche il toscano Giovanni Antonio Dosio che progettò il Cortile grande della Certosa di San Martino e la chiesa e il chiostro dei Girolamini.

Altro architetto di grande valore, il religioso lucano Francesco Grimaldi che edificò diversi capolavori dell’architettura barocca napoletana. Tra cui la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone, il Complesso della Santissima Trinità delle Monache, la chiesa di Santa Maria della Sapienza, la chiesa dei Santi Apostoli. Fu anche l’autore del progetto della Cappella del Tesoro di San Gennaro.

 

La poesia Barocca a Napoli

 

Nella poesia il Barocco trovò il suo massimo esponente nel napoletano Giovan Battista Marino, che però non scrisse mai in dialetto.

Quindi i maggiori rappresentanti della poesia barocca in “lingua napoletana” contrapposta a quella toscana furono:

  • Giulio Cesare Cortese, autore del Viaggio di Parnaso, ricco anche di riferimenti autobiografici. E del poema eroicomico La Vaiasseide. Ovvero l’Epopea delle servette. Infatti le vaiasse allora erano le domestiche. Il termine non aveva ancora il carattere dispregiativo che ha assunto in seguito. È la vicenda di tre giovani domestiche che devono combattere le pretese dei padroni che vorrebbero impedire loro di sposarsi. Ma l’opera offre anche uno spaccato della Napoli popolare dell’epoca. Bigotta in apparenza ma sotto sotto disinvolta e lussuriosa.   

 

  • Felippo Sgruttendio da Scafati della cui biografia non si conosce nulla. Anche perché il nome stesso si presume sia uno pseudonimo. La sua sola opera è La Tiorba a taccone, una chiara parodia della Lira di Giovan Battista Marino. La tiorba è un tipo particolare di liuto mente il taccone è una bulletta per “rattoppare” le scarpe, ma in questo caso viene immaginata come plettro.

 

  • Giambattista Basile, ideatore della fiaba come modello narrativo. Lo cunti de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille, La fiaba delle fiabe, o l’intrattenimento per i più piccoli, è la sua opera più famosa. Una raccolta nota anche come Pentamerone perché ha una struttura simile al Decamerone di Boccaccio, ma con la suddivisione in sole cinque giornate, durante le quali dieci novellatrici raccontano ognuna una fiaba al giorno.

Una rilettura moderna dell’opera fu fatta tra il 1970 e il 1980 da Michele Rack mentre una traduzione con testo a fronte fu realizzata negli anni Ottanta da Nancy Canepa e Rudolph Scheda.

Da una delle fiabe più famose de Lo cunti de li cunti, La gatta cenerentola, Roberto De Simone ha tratto l’opera teatrale omonima.

 

Dalla Villanella alla Tarantella

 

Intanto le melodie delle villanelle lasciarono il campo ai ritmi frenetici della tarantella. Una danza tipica napoletana, nonostante il richiamo alla città di Taranto.

L’origine del nome, invece, sembra derivi da taranta o tarantola, termine scientifico Lycosa tarantula, un ragno il cui morso avrebbe degli effetti “elettrizzanti” sulla vittima.

Secondo la credenza popolare il suo veleno causerebbe il tarantismo, una forma di malessere generale con crisi convulsive simili all’epilessia.

Nella realtà, la tarantola è un ragno di circa 3 centimetri che, con il veleno del suo morso, causa effetti assai modesti. Nella peggiore delle ipotesi, un’eruzione cutanea nella zona interessata.

La tarantella napoletana ha punti di similitudine con il salterello, diffuso in altre regioni d’Italia. È una danza “di corteggiamento”, ballata in gruppo o in coppia al ritmo sostenuto di 3/8 o 6/8 o 12/8.

 

Tarantella
Tarantella. Dipinto di Henrique Bernardelli

 

Gli strumenti della Tarantella

 

I canti sono accompagnati da strumenti caratteristici come tamburelli, nacchere, putipù, triccabballacche e tammorra. E da strumenti più comuni come mandolino, fisarmonica, flauto, organetto ecc.

Il tamburello, simbolo oleografico della tarantella napoletana, è uno strumento a percussione con una sola membrana e dotato di sonagli. Viene battuto dai danzatori stessi per mantenere il ritmo.

Una delle tarantelle più famose è senza ombra di dubbio Michelemmà. Scritta agli inizi del Seicento da un autore anonimo ma spesso attribuita a Salvator Rosa. Ma su quali basi?

Secondo coloro che la ritengono una sciocchezza, Salvator Rosa non ha mai scritto in dialetto. Quindi questo taglierebbe la testa al toro.

Ma c’è la versione opposta. Infatti, pare che durante il suo soggiorno romano, il poliedrico artista amasse ricevere in casa sua ospiti illustri, che intratteneva suonando il liuto e cantando canzoni napoletane, alcune delle quali scritte da lui.

 

I falsi d’autore di Michelemmà

 

Tuttavia, queste due versioni non hanno la stessa valenza. Mentre la prima non lascerebbe dubbi, la seconda non può dimostrare niente.

In realtà, il solo fatto che Salvator Rosa abbia scritto in napoletano, non significa che abbia scritto anche Michelemmà.

Quello che è certo è che le prove di paternità pro Salvator Rosa sono generalmente dei falsi. La più famosa truffa, perché di questo si tratta, fu realizzata da una pronipote del pittore.

Questa signora vendette ad un viaggiatore inglese, Charles Burney, un “Libro della Musica” contenente 23 composizioni, e una postilla scritta a mano su una pagina interna: «Le seguenti arie sono di Salvator Rosa, parole e musica».

 

Mr. Barney si frega le mani e Di Giacomo crea il suo falso

 

Non avendolo pagato nemmeno molto, mister Burney pensò di aver fatto un grande affare. E avere tra le mani un documento straordinario, con una scoperta che lo avrebbe reso famoso.

In effetti non si era reso conto che le sue certezze si basavano su una frase sibillina. La falsaria era stata molto scaltra. «Le seguenti arie sono di Salvator Rosa, parole e musica», potevano significare sia che Salvator Rosa fosse l’autore di quel libro sia che ne fosse solo il proprietario.

È come se non bastasse, anche Salvatore Di Giacomo contribuì alla ridda di illazioni con un altro “falso d’autore” che inserì in una raccolta intitolata Piedigrotta forever.

Riprodusse, utilizzando una tecnica di stampa tipica del Seicento, una sorta di “copiella” di Michelemmà dove compariva  esplicitamente Salvator Rosa come autore. 

 

La ricerca del senso profondo di Michelemmà

 

Comunque, se è difficile attribuire o meno la canzone a Salvator Rosa è ben più difficile tradurla. La sola traduzione letterale già comporta delle difficoltà perché alcuni termini andrebbero interpretati in base ad elementi che non abbiamo.

Ma c’è chi vorrebbe andare oltre. Da più di un secolo studiosi e appassionati si sono arrovellati alla ricerca del significato “profondo” di quella canzone, senza arrivare mai al bandolo della matassa.

Ognuno tira fuori la sua versione e la sostiene. Magari anche con dovizia di elementi. Il problema è che questi elementi non sempre hanno riscontri accettabili. 

E poi, tirare in ballo la storia, la semantica e il significato allegorico delle parole, per una canzone popolare è quanto meno sproporzionato.

 

E se la ragazza fosse l’isola d’Ischia?

 

Tradurre quel testo dal dialetto, anche dell’Ottocento o del Novecento, è semplice. Difficile comprenderne il reale significato. Chi o cos’è Michelemmà? Che cosa fa o che cosa le fanno?

Qualcuno ipotizza che non sia una ragazza ma anche l’isola d’Ischia. Sono più i dubbi che le certezze. 

Senza contare che, il testo potrebbe essere scritto nel dialetto di una località dell’epoca, leggermente dissimile da quello più tradizionale. O essere un linguaggio gergale.

Michelemmà, la tarantella dei misteri irrisolti

 

 

 

Un’altra celebre tarantella ci porta alla fine del Settecento: Lo Guarracino di autore anonimo. Narra di un furioso scontro tra pesci per motivi amorosi.

Il guarracino innamorato mette gli occhi sulla sardella fidanzata dell’alletterato (un tonnetto). Ma si sa, i pettegolezzi allignano in ogni luogo. Nei grandi mari come nei piccoli paesi la gente mormora. 

In questo caso la lingua velenosa è quella della patella (un mollusco) che scatena la guerra tra i pesci. Una disputa che si estende a macchia d’olio e coinvolge sempre più litiganti, divisi ormai in due fazioni, contrapposte e sempre più accanite.

Come va a finire? L’autore non lo rivela. Dice di non poter continuare perché gli manca “lo sciato”, il fiato, e invita il pubblico a offrigli da bere perché s’è seccato “lu cannarone”, il gargarozzo, e si sono svuotati i polmoni.

Lo guarracino, un pandemonio nella tranquillità del mare

 

Il melodramma dal Seicento e al Settecento

 

All’alba del Seicento nacque anche il melodramma o opera lirica. Tecnicamente si divide in tre parti. La prima è un’opera letteraria, in prosa o in versi, scritta da un autore che non deve, necessariamente, essere un musicista.

È il caso di Metastasio. Sul testo viene poi composta la musica, e in seguito si realizza un adattamento teatrale. Francesco Provenzale è uno dei massimi esponenti del melodramma sacro napoletano.

Nel Settecento il melodramma a Napoli ottenne sempre maggiori consensi ma aveva due punti deboli. Il primo riguardava la complessità dell’organizzazione e della necessaria struttura scenografica che incideva pesantemente sui costi.

 

L’intermezzo da compromesso diventa una carta vincente

 

L’altro problema riguardava la parte più popolare del pubblico, vale a dire la più numerosa ma meno attratta da uno spettacolo e da una musica troppo compassata, per i suoi gusti.

La soluzione fu un compromesso che inaspettatamente si rivelò una carta vincente, più che una forzatura dettata dalla necessità. Si introdusse, tra un atto e l’altro, un intermezzo che per il successo che ottenne, diventò parte integrante dello spettacolo.

Spacchi musicali e sketch (come diremmo oggi) prevalentemente comici tratti dalla vita quotidiana del popolo.

 

Dal Melodramma all’Opera buffa

 

Un primo passo che porterà al teatro dialettale e all’Opera Buffa, genere che è nato e si è sviluppato a Napoli prima di diffondersi in tutt’Italia.

La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi fu una delle opere eseguite durante gli intermezzi e che aprirà la strada a quella che sarà la vera e propria Opera buffa.

Per comprendere il livello culturale che aveva questo genere teatrale all’epoca basta citare alcuni compositori. Oltre a Pergolesi, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa, Alessandro Scarlatti.

 

Grande madrigalista ma pluriomicida suo malgrado

 

E il principe Carlo Gesualdo di Venosa, famoso per le sue notevoli qualità di madrigalista ma ancor più per un orrendo delitto di cui si macchiò.

La vicenda ebbe luogo a Napoli, nel Palazzo Sansevero e le vittime furono l’avvenente moglie di Carlo, Maria d’Avalos e l’amante Fabrizio Carafa. I due formavano una bellissima coppia ma, con il passare del tempo, si preoccupavano sempre meno di nascondere la loro tresca.

Di conseguenza lo sapevano tutti, compreso il marito che, tuttavia, non se ne crucciava più di tanto poiché il loro matrimonio era di pura facciata. Una necessità di natura patrimoniale per cui della moglie gli interessava poco o niente.

 

Don Giulio trama la vendetta contro Maria che lo ha rifiutato

 

Ma non poté più fingere quando lo zio don Giulio, con un conto in sospeso con Maria che aveva rifiutato le sue avances, tirò in ballo l’onore della famiglia.

A questo punto il principe si trovò con le spalle al muro e non poté fare altro che ordire un piano per cogliere sul fatto i due amanti e ucciderli, salvando l’onore.

Finse di partire per una battuta di caccia. I due piccioncini nel giro di un’ora, si riunirono nel loro nido d’amore, che poi era l’alcova di Maria, e divenne anche il loro letto di morte.

Non si sa bene come si siano svolti i fatti ma quello che è certo è che i due amanti furono trucidati in maniera orribile.

Poi Carlo, accecato dall’orrore o dal dolore, si accanì ferocemente sui corpi prima di farli esporre, orribilmente dilaniati, all’esterno del palazzo.

Maria d’Avalos, l’orrendo delitto di Palazzo Sansevero

 

Carlo III di Borbone caccia dal regno l’arcivescovo

 

Il Settecento fu il secolo del teatro per Napoli anche sotto il profilo strutturale. Al Fiorentini già esistente dal 1707, si aggiunse nel 1737 il teatro San Carlo, fatto costruire da Carlo III di Borbone, e a seguire il Mercadante, il Nuovo e il San Ferdinando

E proposito di Carlo III bisogna dire che è stato forse uno dei sovrani più illuminati del regno di Napoli. Sicuramente quello che, più di tutti, ha lasciato un segno tangibile sotto il profilo architettonico, giuridico-fiscale oltre che per l’attenta politica economico commerciale.

Ma questo sovrano ha anche il grande merito di avere sempre impedito al clero di esercitare qualsiasi potere “malsano” nel regno: compreso il tentativo di introdurre l’Inquisizione.

Infatti, quando nel 1746, l’arcivescovo Spinelli tentò questa mossa, il popolo, come da sempre ostile a questo tribunale ecclesiastico, di cui era ben nota la crudeltà, insorse con violenza e chiese l’intervento del re.

Carlo, non ebbe tentennamenti, entrò nella Basilica del Carmine, toccò l’altare con la punta della spada e giurò che mai l’Inquisizione sarebbe entrata nel suo regno.

E tanto per essere ancora più chiaro cacciò l’arcivescovo dal suo stato. Nonostante la benevolenza che sia lui che il popolo avevano per il prelato. Almeno prima che tentasse quello scherzo da prete.

 

Carlo III di Borbone
Carlo III di Borbone

 

Nascono tre grandiose regge: Capodimonte, Portici, Caserta

 

Oltre alla costruzione del teatro, avviò i lavori della reggia di Capodimonte, della reggia di Portici e del Real albergo dei poveri. Fu il fondatore della Real Fabbrica di Capodimonte per la produzione delle porcellane, tuttora famose in tutto il mondo.

Nel 1752 affidò all’architetto Luigi Vanvitelli la costruzione della reggia di Caserta, chiedendogli di realizzare un’opera degna della grandiosità della reggia di Versailles. Vanvitelli non deluse le aspettative.

Costruì la residenza reale più grande al mondo, per volume. Oltre che una delle più belle in assoluto. Tant’è che nel 1997 l’Unesco l’ha dichiarata patrimonio dell’umanità.

Nel 1759 Carlo dovette lasciare il regno di Napoli al figlio Ferdinando, di appena otto anni, per salire sul trono di Spagna.

 

Le sorti del regno vengono affidate a Ferdinando IV

 

Ferdinando IV ereditò dal padre il trono ma non la personalità né tanto meno le capacità. Il governo del regno era l’ultimo dei suoi pensieri.

Non solo alla partenza del padre, quando per la giovane età gli fu affiancato un Consiglio di Reggenza, ma per tutta la vita.

Il regno fu amministrato, in concreto, per lungo tempo e con saggezza, da Bernardo Tanucci poi, quasi mai con il necessario equilibrio, dalla regina Maria Carolina.

Da piccolo, i suoi compagni di giochi erano ragazzi della plebe mentre crescendo trascorreva buona parte del suo tempo nelle strade della città e spesso con comportamenti da lazzaro più che da re. Infatti, non per niente è passato alla storia come Re lazzarone.

 

Ferdinanso IV di Borbone
Ferdinanso IV di Borbone, noto anche come re lazzarone e re nasone

 

Ferdinando completa le opera avviate dal padre e ne aggiunge altre

Comunque, a parte queste discutibili abitudini, Ferdinando che è stato il primo re di Napoli nato a Napoli, almeno sotto il profilo strutturale e sociale continuò il percorso segnato dal padre.

Fece costruire l’attuale Villa comunale, dove prima c’era la spiaggia di Chiaia, e i mastodontici Granili, destinati a deposito di grano e vettovaglie.

Una costruzione lunga 560 metri e alta 30 metri. Enormi anche le dimensioni e il numero delle finestre. 87 per ognuno dei tre livelli. Fondò i Cantieri navali di Castellammare e l’Accademia militare della Nunziatella.

Ma il capolavoro incompiuto di Ferdinando fu San Leucio, non tanto per le Manifatture che comunque furono al centro della sua attenzione, quanto per il progetto urbanistico e sociale che stava sviluppando.

 

Ferdinandopoli il sogno socialista del re Nasone

 

La costruzione di una nuova città, Ferdinandopoli, con una pianta avveniristica non si realizzò mai. Ma il suo capolavoro fu il codice di leggi sociali ispirate alle idee di Gaetano Filangieri, e stilato da Bernardo Tanucci.

Un sistema di norme da socialismo utopistico, incredibile in un’epoca assolutistica.

Questa Costituzione metteva al primo posto i diritti umani quindi si ispirava ai principi di uguaglianza, solidarietà, assistenza e persino istituiva la previdenza sociale.

Educazione e buona fede dovevano garantire l’integrità sociale mentre la meritocrazia era l’unica discriminante tra gli individui.

San Leucio era la residenza prediletta di Ferdinando perché gli consentiva di stare lontano dalla corte e dalle responsabilità cui sarebbe stato obbligato. Oltre che dalla moglie. A San Leucio poteva organizzare battute di caccia, feste a cui partecipava tutta la popolazione.

Senza contare che da quelle parti poteva flirtare con ragazze del luogo, ben liete delle sue attenzioni, e che sentiva più vicine al proprio carattere delle schizzinose dame di corte.

Ferdinando IV di Borbone, re lazzarone: plebeo, bonario poi spietato

 

Il fatidico 1799: la Repubblica filofrancese, i lazzari e i Sanfedisti

 

Gli ultimi anni del Settecento a Napoli furono caratterizzati da guerre, rivoluzioni, rivolte e tanto sangue.

Anche sul regno di Napoli soffiò il vento della Rivoluzione francese. Tremò la monarchia e presero coraggio i rivoluzionali repubblicani che nel 1799, con l’appoggio dei francesi costrinsero Ferdinando IV a riparare in Sicilia.

Tuttavia, i francesi non trovarono le porte di Napoli spalancate. Anzi i lazzari, sostenitori della monarchia tennero testa agli “invasori” senza alcun timore e ribatterono colpo su colpo.

La città si trasformò in un enorme campo di battaglia. Ma era solo l’inizio di una sanguinosa guerra civile.

Il 20 gennaio 1799, con uno stratagemma i filofrancesi presero Castel Sant’Elmo ai lazzari. Quindi con i cannoni della fortezza, situata in cima alla collina del Vomero, aprirono il fuoco sui popolani che continuavano ad opporsi all’ingresso dei francesi. Alla fine degli scontri persero la vita tremila lazzari.

 

Nasce la Repubblica Napoletana, sotto il controllo francese

 

Il 23 gennaio 1799, sempre con l’appoggio dei francesi, nacque la Repubblica napoletana, ai vertici della quale c’era il fior fiore della classe intellettuale partenopea.

Ma che non ebbe il sostegno del popolo che nella repubblica ci vide un’alleata delle truppe di occupazione.

Senza contare che l’alto livello intellettuale e le grandi teorie difficilmente si traducono in una reale capacità di governo. Anche se il nocciolo della questione era un altro. I repubblicani erano loro stessi sotto il controllo dei francesi.

Paradossalmente, come hanno notato alcuni storici, questi intellettuali fecero cadere una monarchia, non oppressiva, come dimostra il sostegno della popolazione, per andare a mettersi sotto il comando supremo del generale Championnet.

La realtà è che i repubblicani furono solo usati dall’esercito napoleonico. E lo dimostra il mancato riconoscimento della Repubblica napoletana da parte della Francia.

Un riconoscimento che non sarebbe stato un semplice atto di gratitudine ma un’ancora di salvezza per i giacobini napoletani. Come dimostreranno gli eventi successivi.

 

Il cardinale Fabrizio Ruffo  riunisce l’armata della Santa Fede

 

Nel frattempo, all’inizio del febbraio 1799, con il beneplacito di Ferdinando IV, il cardinale Fabrizio Ruffo, in Calabria, riuscì a mettere insieme una vera e propria armata denominata, pomposamente, Esercito della Santa Fede.

Nella realtà era un’orda composta dai più spietati briganti dell’epoca, tra cui Fra Diavolo, Mammone e Scarpa con le loro bande, e dagli uomini arruolati dal cardinale Ruffo.

Gente non troppo diversa dai briganti: disertori, assassini, galeotti liberati per l’occasione dalle carceri borboniche, banditi e grassatori di ogni risma e infine contadini che in questa missione intravedevano la possibilità di un riscatto sociale.

Per i Sanfedisti fu comunque una marcia inarrestabile, favorita anche dal sostegno delle popolazioni che incontravano lungo il percorso. Mentre le città che cercarono di opporsi pagarono a caro prezzo la loro temerarietà.

 

I Sanfedisti sbaragliano i repubblicani sul Ponte della Maddalena

 

Arrivati a Napoli, nella battaglia decisiva del Ponte della Maddalena sbaragliarono definitivamente i repubblicani, nel frattempo privati del sostegno dei francesi.

Questi furono costretti ad abbandonare la città per correre nell’Italia settentrionale dove la situazione stava diventando critica.

Il 13 giugno 1799, dopo l’ultima strenua difesa la Repubblica fu costretta a capitolare e concludere la sua breve esperienza. 142 giorni.

 

attacco a Castel Sant'Elmo
9 giugno 1799 attacco a Castel Sant’Elmo

 

Con il ritorno dei Borboni a Napoli arrivò anche l’ora di una spietata resa dei conti. Ma i sovrani si comportarono in maniera ignobile.

Infatti, sconfessando l’accordo raggiunto dal Cardinale Ruffo con i repubblicani, ai quali offriva una resa onorevole e l’opportunità di lasciare il regno, destituirono il prelato e fecero arrestare 8.000 rivoltosi.

Dopo i processi 124 vennero condannati a morte e 222 all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 furono deportati, 67 esiliati e solo 6 graziati.

 

L’ignobile vendetta dei sovrani colpisce i più grandi intellettuali

 

La possibilità di effettuare questa squallida vendetta fu resa possibile da quel mancato riconoscimento della Repubblica Napoletana da parte della Francia.

Una mancanza che di fatto negava l’esistenza stessa di quella repubblica. E gli insorti non potendo godere dello status di prigionieri politici furono condannati come traditori.

Tra le persone giustiziate alcuni grandi nomi della cultura quali il filosofo e giurista Mario Pagano, la giornalista Eleonora Pimentel Fonseca, il medico Domenico Cirillo, l’ammiraglio Francesco Caracciolo e la povera Luisa Sanfelice che con la politica e la rivoluzione non c’entrava proprio nulla.

Semplicemente, e ingenuamente, aveva fatto una confidenza all’amante sbagliato e si era ritrovata sulle pagine del Monitore Napoletano come eroina della Repubblica.

Che non avesse avuto nessun ruolo nella Repubblica napoletana era noto, anche al re. Eppure, nonostante le tante persone, anche a lui molto vicine, che ne chiedevano la grazia fu inflessibile e con una sorta di ottusa vendetta la fece giustiziare, quasi di nascosto.

 

Canti del molo, improvvisator e copielle

 

Durante i primi anni dell’Ottocento, con il decennio di dominazione francese che seguì i tragici eventi del 1799, ci fu poco da stare allegri. La musica e le canzoni non erano, di certo, in cima ai pensieri del popolo.

Lo dimostrano anche le poche e frammentarie notizie che sono pervenute sull’argomento durante tutta la prima metà di quel secolo.

Il molo di Napoli, con ciò intendendo una vasta area che comprendeva anche Santa Lucia, ospitava numerosi spettacoli ispirati a racconti epici dell’antichità. Ma anche artisti di varia natura, giocolieri, prestigiatori, Pulcinella, imbonitori e magari anche qualche imbroglione.

Tuttavia, quello che conta sono i canti che nascevano in questo enorme mercato che andava dal teatro epico alla sagra paesana.

Canti che nascevano dall’improvvisazione ma che non tutti andavano persi. C’era chi dall’ascolto di questi exploit riusciva a raccogliere il meglio per essere rielaborato e trascritto.

E da tale contesto vennero fuori anche delle figure che risulteranno di grandissimo impulso per la diffusione della canzone napoletana classica.

 

I musici ambulante e la vendita dei fogli volanti

 

Erano dei musici ambulanti che vendevano anche dei fogli volanti sui quali erano stampati brani d’opera o canzoni di ogni genere.

Questi fogli volanti, noti anche come copielle, saranno il veicolo principale per la diffusione delle canzoni napoletane fino alla nascita dell’industria discografica.

Il primo esempio “storico” di questa realtà si realizza nel 1840 quando “Io te voglio bene assaje” vende 180.000 copielle.    

Ma quello che caratterizza principalmente il canto, in questo periodo è l’improvvisazione. L’improvvisatore è un poeta che non compone le sue canzoni in precedenza né le scrive, ma le inventa nel corso dell’esibizione.

Insomma, dei cantanti “a braccio”, che non appartenevano ad una sola classe sociale. Non erano gli stessi e il loro repertorio non era uguale.

Ma c’erano sia quelli che si esibivano tra il popolo, che quelli che venivano ospitati nei salotti più raffinati della città.

 

Gli improvvisatori, poeti dalla rima sempre pronta

 

Tra questi ultimi c’era Raffaele Sacco, ottico di professione ma autore di Io te voglio bene assaje. Autore ma non compositore, ad essere precisi, perché le performance di questi poeti erano estemporanee non venivano trascritte dall’autore.

Questo ruolo veniva assunto qualcuno che ascoltando l’exploit dell’improvvisatore traeva spunto per la compozizione e la stampa del brano.

Un maestro nella raccolta e nella rielaborazione di queste trascrizioni fu Gugliemo Cottrau. Sono ascrivibili a lui,  Io te voglio bene assaje, Fenesta vascia, Fenesta ca lucive.

Le notevoli doti degli improvvisatori offrivano la possibilità di gare canore durante le quali i poeti si confrontavano sulla capacità di inventare sul momento i versi più belli.

Sfide che si tenevano sia negli ambienti sociali più elevati che in quelli più popolari.

 

Il canto a ‘fronne ‘limone’ e ‘a figliola’

Ovviamente ad un certo livello queste gare venivano organizzate con più cura e si svolgevano in locali idonei, teatri o salotti aristocratici.

A livello popolare il panorama era più ampio perché caratterizzato da un tessuto sociale meno omogeneo. Nei bassifondi queste gare coinvolgevano personaggi della malavita e potevano concludersi in maniera violenta.

Comunque, la sfida canora nella Napoli popolare aveva già un’antica tradizione. I cosiddetti canti “a fronne ’e limone” e “a figliola”. Forme con alcuni punti di contatto, come l’uso esclusivo del dialetto, ma molto differenti.

Il canto “a fronna ’e limone” è tipico dell’entroterra giuglianese e nocerino-sarnese. Era un canto contadino che aveva anche delle funzioni pratiche.

Veniva utilizzato dai venditori dei mercati per attirare i clienti verso i propri prodotti. Ma famoso anche come mezzo di comunicazione tra i carcerati e i loro parenti dall’esterno.

Il canto “a figliola” per certi versi ne è una derivazione.  Infatti, non prevede accompagnamento musicale e si basa sull’improvvisazione dei cantori. Tuttavia, ha delle differenze di tecnica musicale.

Di solito sono canti collegati ad una celebrazione religiosa. Infatti, in occasione della festa della Madonna di Montevergine, dai balconi di via Duomo si esibivano i cantanti sottoponendosi al giudizio della gente che affollava la piazza.

 

Nasce la canzone napoletana classica

 

Con l’Ottocento arrivò il secolo d’oro della canzone napoletana classica. Venne avviata dall’impegno dei primi editori alla riscoperta e alla pubblicazione delle antiche canzoni popolari.

Con i fratelli Giraud i testi e la musica dell’epoca diventarono accessibili a tutti grazie al basso costo di una “copiella”.

Una sorta di volantino con lo spartito e le parole della canzone. Il ruolo della copiella sarà fondamentale nello sviluppo e nella diffusione delle canzoni fino alla comparsa dei primi dischi a 78 giri.

Il successo di una canzone veniva determinato in base al numero di copielle vendute e in questa prospettiva la Piedigrotta rappresentava un grosso trampolino di lancio.

Un successo senza precedenti, come abbiamo detto, venne raggiunto nel 1839 da Te voglio bene assaje, presentata alla festa di Piedigrotta, con le sue 180.000 copielle vendute.

Un numero incredibile se si pensa che le canzoni di maggior successo dell’epoca riuscivano a stento ad arrivare a 4-5000 copielle. E solo poche elette riuscivano ad avvicinarsi alle 10.000.

 

I posteggiatori e le copielle

 

Tuttavia, queste copielle non sarebbero servite a nulla senza l’apporto determinante di quei musici ambulanti, i cosiddetti posteggiatori, che ne permetterono la diffusione.

Questi suonatori si esibivano nelle strade, nelle piazze e nei vicoli. I loro guadagni erano piuttosto modesti per cui arrotondare con la vendita delle copielle faceva comodo.

Ma il posteggiatore non è una figura nata negli ultimi secoli. Ha origini antichissime. Se ne trovano tracce già nei dipinti di molti secoli avanti Cristo.

In buona sostanza erano musici e menestrelli, che allietavano i banchetti dei sovrani, dei nobili e dei ricchi, in epoca romana. Funzione che rimase viva anche durante tutto il Medioevo.

 

La carriera di Enrico Caruso parte da giovane posteggiatore

 

Poi nell’Ottocento il posteggiatore diventò un ambulante della canzone. E ad alcuni di loro quest’attività permise di mettersi in luce e raggiungere un successo inimmaginabile.

Uno fra tutti, Enrico Caruso che iniziò come giovane posteggiatore la sua straordinaria carriera.

Oggi, la figura del posteggiatore non è sparita. Generalmente è possibile trovarlo ancora in qualche ristorante tipico. Canta e suona con la chitarra o il mandolino. Oppure non canta e non suona per non disturbare, come nel film di Luciano De Crescenzo, Così parlò Bellavista.

 

Lo strepitoso successo di Te voglio bene assaje

 

È opinione diffusa che Te voglio bene assaje rappresenti il passaggio dalla musica napoletana popolare a quella d’autore. In questo caso l’autore del testo fu, con certezza, l’ottico e poeta Raffaele Sacco.

Per la musica il maestro Campanella fu messo in discussione da qualcuno convinto fosse stata composta da un padre più nobile, cioè Gaetano Donizetti.

In questo caso, al contrario di Michelemmà dove la paternità di Salvator Rosa non poteva contare su prove concrete o testimonianze dirette, il dubbio poteva essere chiarito.

Infatti, il grande compositore bergamasco era vivo e vegeto ma quando gli fu posta esplicitamente la domanda egli tacque. Quindi sarebbe una conferma perché chi tace acconsente?

No, perché chi tace non dice niente. Per cui il mistero, o presunto tale resta. Ma fino a un certo punto perché il maestro all’epoca era “in tutt’altre faccende affaccendato”.

Quella che invece è certa è la diffusione capillare della canzone. Il ritornello divenne un esasperante tormentone per la città. Tutta Napoli lo cantava.

 

 

Le origini della Festa di Piedigrotta

 

Il successo di Te voglio bene assaje fu anche la dimostrazione di quali erano le potenzialità del concorso canoro di Piedigrotta per la promozione delle nuove canzoni. Una ghiotta occasione anche per le sempre più numerose case editrici della città.

Ma la festa di Piedigrotta non nacque in quegli anni anche se proprio allora si stava affermando come vetrina promozionale della canzone napoletana.

Le sue origini sono molto antiche e già nel Quattrocento era una festa religiosa in onore della Natività di Maria. Ogni 8 settembre i sovrani angioini prima e aragonesi dopo, si recavano presso la chiesa di Piedigrotta per rendere omaggio alla Madonna.

La chiesa di Santa Maria di Piedigrotta si trova attualmente nella zona di Mergellina, adiacente alla Crypta Neapolitana.

La Crypta è una galleria di quasi un chilometro che, secondo la leggenda, fu scavata da Virgilio in una sola notte, con una sua magia, allo scopo di collegare Napoli a Pozzuoli.

 

I riti orgiastici del dio Priapo

 

Petronio Arbitro nel suo Satyricon sostiene che la Crypta Neapolitana fosse consacrata a Priapo, dio della fertilità. Infatti, questo dio pagano, figlio di Afrodite, o Venere che dir si voglia, era superdotato di quella che De Andre’ definisce «la virtù meno apparente».

È con quella dotazione intratteneva le fanciulle in fiore, e in cerca di marito, completamente nude, tra canti e balli propiziatori.

Nel 1200, sulle rovine di quello che era considerato il tempio di Priapo fu edificata la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, da cui la festa omonima.

Nel XV secolo la chiesa divenne meta di pellegrinaggi di devozione alla Madonna e occasione di allegre scampagnate.

Nel 1734, Carlo di Borbone volle accrescere la rilevanza della festa di Piedigrotta elevandola a manifestazione di prestigio per la casa reale, facendo sfilare una parata militare che ricordasse la vittoria di Velletri sui Tedeschi.

 

Murolo e Tagliaferri promuovono il primo Festival Napoletano

 

Nel 1931, il padre di Roberto Murolo, Ernesto, insieme al maestro Ernesto Tagliaferri promosse un’altra passerella. Lo scopo in questo caso non era la promozione di nuove canzoni inedite ma il rilancio di grandi successi del passato: il Festival Napoletano che si tenne, però a Sanremo.

Tutte canzoni napoletane presentate dagli interpreti più in voga del momento. Iniziò il 24 dicembre del ’31 e si concluse a Capodanno del ’32.

Non c’era una competizione per cui nessuna classifica e nessun vincitore. Almeno sul palco. Infatti, il vero vincitore di un festival viene sancito solo in seguito con la vendita dei dischi.

In pratica, a parte il gigantesco carrozzone che mette in piedi, anche il Festival di Sanremo ha lo stesso scopo. E il vero vincitore non sempre è quello che alza il trofeo all’Ariston. Mentre di sicuro è colui che vende il maggior numero di copie della sua canzone.

 

Anche i big si piazzano ultimi a Sanremo

 

Ed è un vincitore anche chi grazie alla vetrina di Sanremo, nonostante il pessimo piazzamento esprime tutto il suo valore.

Infatti, molti big della canzone italiana hanno provato l’emozione di arrivare ultimi al Festival.

Nel 1983 Vasco Rossi arrivò ultimo con Vita spericolata. Nel 1985 Zucchero con Donne. Nel 2005, i Negramaro non arrivarono nemmeno alla fase finale. Franco Califano due volte ultimo nel 1994 e 2005.

Persino un mito come Domenico Modugno nel 1972 si ritrovò ultimo. La lista è lunghissima e a volte la canzone bocciata diventa uno straordinario successo. In almeno un caso però, l’epilogo fu molto triste.

Luigi Tenco non ebbe mai la possibilità di conoscere lo straordinario successo di “Ciao amore ciao”.

 

Nasce il Festival di Napoli

 

Il Festival napoletano, intanto, dopo sole due edizioni scomparve. E bisogna arrivare al 1952 perché la Rai, un anno dopo la nascita del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, tenti la carta Festival di Napoli.

L’idea era quella di soppiantare definitivamente la gara canora della Piedigrotta ormai priva di attrazione.

Per il Festival si scelse la maestosa cornice della Mostra d’Oltremare ma non si riscosse il successo sperato. In primo luogo, perché le canzoni napoletane del dopoguerra, salvo rarissime eccezioni, sono solo copie sbiadite di quelle classiche dell’epoca d’oro.

Ma principalmente perché alla mancanza di qualità fecero da contraltare scandali, intrighi, gelosie e grossi interessi di parte.

La conseguenza fu che nel 1970 la Rai abbandonò il progetto e il Festival stesso si esaurì. Negli anni successivi ci saranno degli improbabili tentativi di riproporlo ma ormai era un limone spremuto.

 

Negli anni ’70 la storia della canzone napoletana riprende con nuova generazione

La canzone napoletana ritornò negli anni Settanta del Novecento con la comparsa nel panorama musicale partenopeo di cantautori quali Pino Daniele, Eduardo Bennato, Enzo Gragnaniello, Eduardo De Crescenzo, Teresa De Sio. Roberto De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Massimo Ranieri.

 

L’epoca d’oro della canzone napoletana

 

Nella seconda metà dell’Ottocento nacque la canzone napoletana d’autore. Quella che è diventata famosa nel mondo per le sue melodie. Però prima di iniziare una rassegna cronologica dei più grandi successi, è utile ricordare le canzoni che hanno segnato la strada che ha condotto all’epoca d’oro.

Intorno al 1200, i Canti delle lavandaie di Antignano . E tra questi canti Jesce sole ritenuto in assoluto la prima canzone popolare napoletana.

Nel 1500. Fenesta vascia di autore anonimo. Antica villanella rielaborata nel 1825 dall’abate Genoino e Guglielmo Cottrau.

Nel 1600. Michelemmà di anonimo. Ma secondo alcuni di Salvator Rosa.

Nel 1600. Fenesta ca lucive. Di anonimo, ma secondo alcuni di Vincenzo Bellini. Rielaborata da Guglielmo Cottrau nel 1843.

Nel 1768. Lo Guarracino, una tarantella di autore anonimo

Nel 1838. Te voglio bene assaje. Testo di Raffaele Sacco. Musica di Filippo Campanella anche se qualcuno volle attribuirla a Gaetano Donizetti.

 

La canzone napoletana d’Autore

Funiculì funiculà, del 1880, viene considerata la prima canzone di questo periodo di grazia, che proseguirà fino alla prima metà del Novecento. Ma nell’arco di questi quasi settant’anni si racchiude un ulteriore periodo fortunato. A cavallo dei due scecolo nasce l’epoca d’ora della canzone napoletana, di cui sono protagonisti Ernesto Murolo, Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo ed E.A. Mario.

 

 

Funiculì funiculà

 

1880 • Funiculì Funiculà. Fu presentata alla Piedigrotta del 1880 ottenendo uno strepitoso successo. Eppure, lo scopo di partenza degli autori era molto meno ambizioso. Il finanziere ungherese Ernesto Emanuele Oblieght aveva investito una cifra considerevole per la costruzione della funicolare del Vesuvio, che fu inaugurata nel 1880 ma l’investimento si rivelò un vero flop.

Tuttavia, le speranze iniziali dello sfortunato imprenditore erano tutt’altre e ritenne fosse utile una campagna promozionale adeguata per convincere i visitatori ad utilizzare la funicolare per arrivare sul vulcano.

La presenza a Castellammare di Stabia, del direttore d’orchestra Luigi Denza e del giornalista Peppino Turco, entrambi in vacanza, gli suggerì l’idea di commissionare loro una canzone. Un testo ad hoc ed una melodia accattivante capace di attirare un’utenza, che si stava rivelando piuttosto riluttante. 

* * *

I due autori composero la canzone e la presentarono alla Festa di Piedigrotta conseguendo un successo tale, che nemmeno nei loro sogni più reconditi avrebbero potuto immaginare.

Infatti, già nel solo primo anno di pubblicazione fecero la fortuna della casa discografica Ricordi, vendendo oltre un milione di copie in tutto il mondo.

Al contrario si rivelò inefficace per le speranze promozionali di Oblieght, perché le cause dello scarso utilizzo dell’impianto erano ben diverse da quelle immaginate dal finanziere.

Che dopo gli enormi investimenti fatti per la costruzione e poi per la gestione, nel 1886 dovette venderla ad una società francese. Ma i transalpini non furono più fortunati dell’ungherese e dopo appena due anni la cedettero alla britannica Thomas Cook & Son.

Funiculì funiculà, ‘fallisce’ lo scopo ma trionfa alla Piedigrotta

 

Era de maggio

 

1885 • Era de maggio. La canzone è una “mattinata”, vale a dire una versione diurna della serenata. Fu scritta da Salvatore Di Giacomo e musicata Pasquale Mario Costa e presentata nel 1885 alla Festa di Piedigrotta.

Una perla rara del repertorio classico napoletano. Una struggente canzone d’amore. Una poesia a cui è stato cucito su misura un vestito che ne esalta la drammaticità.

Strutturalmente la canzone è divisa in due parti, quella che precede la partenza e quella successiva, con il ritorno dell’innamorato.

Entrambe le parti si svolgono nel mese di maggio e hanno per cornice un giardino pieno di ciliegie (cerase) e prima della partenza cantano insieme frementi del loro amore.

* * *

Il mese di maggio è quello in cui sbocciano le rose, e come sempre anche in quell’anno sono sbocciate. Ma adesso i due amanti si devono separare, e dovranno aspettare un anno intero per tornare insieme, in quello stesso giardino, per vederle di nuovo sbocciare.

Infatti, il ragazzo deve partire e la ragazza è disperata ma lui le ripete ancora che tornerà a distanza di un anno: a maggio.

E come promesso dopo un anno ritorna. In quello stesso giardino dove tutto è rimasto immutato come il loro amore. E come allora, cantano ancora il loro motivo, una canzone antica ripartendo da dove si sono lasciati.

Era de maggio, versione diurna di una serenata

 

Marechiare

 

1886  Marechiare. È la serenata che uno spasimante canta alla sua bella restia ad affacciarsi alla finestra e corrispondere al suo amore. Eppure, si tratta di una serata incantevole a cui prende parte tutta la natura con la luna, il mare e i pesci.

È un luogo incantato dove ha un suo ruolo anche la finestrella con un garofano nel vaso poggiato sul davanzale. Manca solo Carolina che non sembra volersi affacciare.

Marechiaro in effetti è un luogo incantevole ma è strano che a cantarlo sia proprio Salvatore Di Giacomo che quel luogo nemmeno lo conosceva. I miracoli della poesia con la “P” maiuscola.

* * *

Infatti, è vero che Di Giacomo conoscerà Marechiaro, per puro caso, dopo otto anni che aveva scritto quei versi. È probabile che li abbia scritti seduto ad un tavolino del Caffè Gambrinus.

Ed è sicuro che quegli stessi versi non li sopportava perché non li riteneva degni di un poeta come lui. E non cambiò mai idea perché non ha mai inserito Marechiare in una sua raccolta di poesie.

Ma queste sono solo sfumature. La vera poesia non trae il suo incanto da un luogo reale o immaginario che sia. È la magia che il poeta riesce a trasmettere con i suoi versi.

Paolo Tosti invece riuscì a creare un amalgama perfetto tra la sua musica e il testo di Salvatore Di Giacomo, col risultato di rendere Marechiare e la fenestella famosi nel mondo.

Marechiare, tutta la natura partecipa alla serenata

 

’O sole mio

 

1898 • ’O sole mio. Una canzone che non ha bisogno di presentazioni. La più famosa canzone del mondo nella celebrazione della luce, della vita e dell’allegria.

Eppure, quando Eduardo Di Capua compose la musica sulle parole di Giovanni Capurro si trovava ad Odessa, in Russia, dove il Sole non è proprio un ospite fisso.

Come tutte le canzoni napoletane classiche È conosciuta in tutto il mondo ed è stata interpretata dai più grandi cantanti.

Ma anche da personaggi che hanno fatto la storia. Come papa Giovanni Paolo II, che in occasione della visita pastorale ad Ischia per il suo 82esimo compleanno: si esibì in un piccolo accenno.

Ma le note di ’O sole mio sono arrivate persino nello spazio grazie a Jurij Gagarin che le intonò durante il primo viaggio dell’uomo intorno alla Terra. Era il 12 aprile 1961.

Purtroppo, è triste che gli autori di un così grande successo non ne abbiano potuto godere i proventi e anzi siano morti in miseria.

Infatti, i diritti li avevano venduti dopo il secondo posto ottenuto alla festa di Piedigrotta, per 25 lire, alla Casa discografica Bideri che è tuttora la grande beneficiaria di questa straordinaria canzone.

’O sole mio, la luce dalle nebbie dell’Ucraina

 

Maria Marì

 

Nel biennio 1899-1900, Eduardo Di Capua e Vincenzo Russo confezionarono tre capolavori della canzone napoletana: Maria Marì, I’ te vurria vasà e Torna Maggio

1899 • Maria Marì o come preferisce qualcuno, Oj Marì, è un inno all’amore ma ad un amore disperato per una donna insensibile allo strazio del protagonista, che ormai vive nella vana attesa che si apra la finestra e si affacci la sua Maria. Maria Marì fu pubblicata nel 1899 e il suo successo fu immediato e straordinario.

Il tormento di questa canzone non si discosta molto dalla infelice esistenza di Vincenzo Russo, autore del testo. Vissuto in precarie condizioni economiche e ancor peggio di salute. Infatti, morì a soli 28 anni di tubercolosi, dopo anni di sofferenze.

La musa ispiratrice delle sue canzoni, aldilà del nome attribuito nel testo, è sempre Enrichetta Marchese, figlia di un gioielliere che nonostante l’abisso sociale che li divideva ricambiava il suo amore.

Anche se soltanto con gli sguardi, perché il padre non gli avrebbe mai concesso di avvicinarsi, o ancor meno di aspirare, alla figlia. Ma nemmeno Vincenzo aspirava a tanto perché sapeva che la sua vita stava per concludersi.

* * *

Sotto il profilo musicale fu fondamentale per lui l’incontro con Eduardo Di Capua, di dieci anni più grande e ormai affermato autore con ’’O sole mio. L’incontro fra i due fu una conseguenza del vizio del gioco di cui era succube Di Capua. 

All’epoca Vincenzo Russo lavorava come guantaio e per l’aspetto macilento si era ritrovato addosso la fama di “assistito”.

L’assistito era una figura a cui, nell’Ottocento, venivano attribuiti dei poteri paranormali o quanto meno la capacità di suggerire i numeri da giocare al “Banco lotto”.

Vincenzo ebbe dunque occasione di incontrare Di Capua e più che i numeri vincenti gli sottopose le sue poesie.

Il maestro rimase affascinato dai versi di Russo che all’epoca aveva 23 anni e tra loro nacque un’amicizia indissolubile che durò fino alla morte del poeta, cinque anni dopo.

Maria Marì, la vana attesa di un gesto d’amore

 

I’ te vurria vasà

 

1900 • I’ te vurria vasà. Cronologicamente è forse la prima canzone del 1900. Scritta da Vincenzo Russo, presumibilmente nella notte a cavallo tra due secoli, mentre era a letto con la febbre.

E consegnata il giorno successivo all’amico Eduardo Di Capua per farla musicare. 

Si dice gliel’abbia consegnata all’uscita del Salone Margherita dove, ancora febbricitante, era stato trascinato dal maestro per assistere ad una esibizione di Armando GillForse è solo un aneddoto ma in qualsiasi modo gliel’abbia consegnata la data è quella.

La canzone descrive la tenera intimità di due amanti in un giardino profumato di malvarosa e rinfrescato da un leggero venticello. Una ragazza dorme soavemente distesa su un letto di foglie.

Il giovane che è con lei vorrebbe baciarla ma si trattiene per il timore di farla svegliare e rompere l’incantesimo di quel momento.

Presentata al concorso “La tavola rotonda” il brano non ebbe un immediato riscontro e si classificò solo secondo. Per di più ex aequo con altre concorrenti. Solo negli anni successivi ottenne il meritato successo diventando famosa nel mondo.

I’ te vurria vasà! La tristezza di un amore irraggiungibile

 

Torna Maggio

 

1900 • Torna Maggio. La straordinaria coppia Russo-Di Capua confeziona il suo terzo successo nell’arco di un anno.

È la volta di Torna maggio. Una lirica che mette in evidenza un rapporto stridente tra la contagiosa fioritura della natura nel mese di maggio, e l’indifferenza della donna amata dal protagonista.

L’uomo ha praticamente consumato la strada davanti al suo balcone, per le tante volte che l’ha attraversata nella speranza di trovare affacciata la sua bella.

Ma niente, quel balcone rimane sempre vuoto e per lui è come se maggio, nel senso di primavera, non fosse mai arrivato. Perché per lui la vera primavera è quell’amore che non è fiorito. 

Torna maggio ma non basta a risvegliare l’amore

 

Torna a Surriento

 

1902 • Torna a Surriento. Lo spunto venne fornito dalla visita alla Costiera sorrentina del Presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli nel 1902.

Sindaco di Sorrento, all’epoca Guglielmo Tramontano, proprietario anche dell’omonimo Grand Hotel, sperava di mettere a frutto l’arrivo del Primo ministro per ottenere un ufficio postale e delle opere pubbliche di cui all’epoca aveva tanto bisogno quel territorio.

Per ingraziarselo pensò non ci fosse omaggio migliore che quello di una canzone dedicata a lui. Tanto più che aveva gli autori giusti per realizzare un brano all’altezza dell’illustre ospite.

Erano i fratelli De Curtis, due suoi amici che in quei giorni si trovavano a Sorrento. Proprio nel suo albergo dove stavano realizzando delle opere pittoriche.

Conoscendo le qualità dei due anche in campo musicale, il sindaco chiese loro di comporre una canzone per rendere omaggio a Giuseppe Zanardelli. Il vero problema erano i tempi: doveva essere pronta nel giro di qualche ora.

I fratelli De Curtis quindi “imbastirono in poche ore” Torna a Surriento in onore del Presidente.

In realtà le cose non andarono proprio così ma il presidente ebbe il suo omaggio e Tramontano restò in speranzosa attesa del suo ufficio postale.

Torna a Surriento, la canzone nata due volte

 

Voce ’e notte

 

1904 • Voce ’e notte. Questa canzone non sarebbe nemmeno nata senza l’ostinazione del maestro Ernesto De Curtis, che si innamorò di quei versi ma dovette faticare non poco per convincere Edoardo Nicolardi a farglieli musicare.

Nicolardi voleva tenere i versi per sé forse perché sono in qualche modo autobiografici.

Infatti, nei versi di Voce ‘e notte, Nicolardi racconta il difficilissimo cammino prima di coronare il suo sogno d’amore con Anna Rossi, figlia del commendator Gennaro, allevatore di cavalli da corsa e notevolmente benestante.

Voce ’e notte ha ispirato Maurizio De Giovanni per un suo romanzo poliziesco: Serenata senza nome. Notturno per il commissario Ricciardi.

Come tutte le canzoni napoletane classiche da oltre un secolo i più grandi artisti italiani e internazionali ne hanno dato una propria interpretazione.

Tra le più recenti meritano di essere ricordate quelle di: Mina, Massimo RanieriEddy NapoliLuciano Pavarotti e Renzo Arbore con l’Orchestra Italiana e la stupenda voce di Francesca Schiavo.

Voce ’e notte, la serenata della perseveranza

 

Core ‘ngrato

 

1911 • Core ’ngrato. Anche questa è una delle canzoni scritte da autori che all’epoca erano lontani da Napoli. Alessandro Sisca e Salvatore Cardillo nel 1911 erano due emigranti napoletani a New York.

La scrissero “tanto per fare qualcosa” ma non pensavano potesse diventare addirittura un inno per gli emigranti italiani.

A Napoli Core ‘ngrato venne accolta con grande favore nonostante fosse alquanto insolito che una canzone napoletana invece che andare in America ne provenisse.

Il cuore ingrato è quello di Caterina, Catarì. Una donna che rimane indifferente alle parole accorate dell’innamorato, sconvolto dall’idea di doverla perdere. La supplica, la implora, la prega ma non c’è niente da fare.

* * *

Caterina non si commuove. E lo comprende bene il confessore che “è persona santa” e a cui l’uomo chiede consiglio: «Figliolo lasciala perdere… lasciala perdere. Tutto è passato e non ci pensi più”.

L’autore del testo Alessandro Sisca alias Riccardo Cordiferro, pseudonimo col quale firmò anche Core n‘grato, era calabrese di San Pietro in Guarano. Ma di origini napoletane da parte della mamma.

Emigrato in America si stabilì definitivamente, con la famiglia, a New York nel 1893. Aveva 18 anni e intraprese l’attività giornalistica.

Insieme al padre fondò il periodico letterario La follia. Un settimanale in lingua italiana che suscitò notevole interesse nella comunità italoamericana e poté contare anche sulla collaborazione di alcuni nostri celebri connazionali, tra cui Enrico Caruso.

E proprio Enrico Caruso fu il primo ad ascoltare le parole e la musica di Core N’grato commuovendosi, pare, fino alle lacrime e chiedendo di essere il primo ad interpretarla. Come poi avvenne.

* * *

Salvatore Cardillo si riteneva un autore di musica operistica e come tale voleva essere apprezzato e ricordato. Collegare invece il proprio nome a quella “porcheriola”, come la definì in una lettera del 1946 alla cugina Wanda, lo offendeva.

Ma è stato fortunato perché proprio la vituperata porcheria lo ha reso famoso. Mentre di quella che definiva la sua “musica vera” se ne ignora persino l’esistenza.

Tra l’altro dalla “porcheriola” venne tratto nel 1951 un film di grande successo, diretto da Guido Brignone e interpretato da Carla Del Poggio, Gabriele Ferzetti e Frank Latimore.

Core n’grato, il tormento di un amore non ricambiato

 

Guapparia

 

1914 • Guapparia. La cosiddetta “canzone di giacca” aveva per protagonista il guappo. Una sorta di boss rionale. Un personaggio vestito con eleganza e ricercatezza pacchiana.

Nel rione era ammirato e temuto. Ci si rivolgeva a lui per ottenere giustizia e dirimere controversie. Però doveva stare bene attento a non mostrare lati deboli del suo carattere.

Guapparia è una delle più famose canzoni di giacca. Fu scritta nel 1914 da Libero Bovio, una delle figure che hanno fatto la storia della canzone napoletana del primo Novecento.

Autore tra le altre di Reginella e Tu ca nun chiagne. Rodolfo Falvo ne compose la musica.

* * *

Il guappo di questa canzone è stato offeso nella dignità da una donna che ha rifiutato il suo amore.

Ma invece di reagire da “uomo d’onore” va a “piangere” sotto la finestra di Margherita, accompagnato da un gruppo di musicanti per suonare una serenata alla «femmena cchiù bella d’ ’a ’Nfrascata».

Il guappo non può perdonare a questa donna l’affronto che gli ha fatto facendogli perdere anche la faccia nell’onorata società.

Ma le sue minacce non sono cruente. Non ci sono coltellate o sfregi. La sua vendetta si limita a uno sfogo che dovrebbe commuovere la ragazza.

Invece gli unici a commuoversi sono i musicanti che non riescono nemmeno più a mantenere il tempo: «chiagne tutt’ ’o cuncertino» e piangono i «guagliune ’e malavita». Piange tutto il concertino e piangono i ragazzi della malavita.

Era un genere di canzone che trovava ampio spazio nella sceneggiata napoletana, una forma di teatro molto particolare degli anni ’20-’30 riportata in auge da Mario Merola negli anni Settanta.

Guapparia, con lo spirito della sceneggiata

 

’O surdato ’nnammurato

 

1915 • ’O surdato ’nnammurato, il soldato innamorato, è una delle più famose canzoni del patrimonio musicale classico napoletano. Fu scritta dal poeta santegidiano Aniello Califano e musicata da Ennio Cannio.

Il protagonista è un giovane soldato della Grande guerra. Un ragazzo che esprime i sentimenti di tutti i suoi coetanei delle trincee, chiamati molto spesso a combattere una guerra di cui ignorano persino le motivazioni.

Ma i vertici militari la considerano una lirica disfattista. Anzi un inno alla diserzione. E nel periodo della dittatura fascista venne addirittura messa all’indice dal regime.

Eppure, se si legge con un minimo di attenzione il testo, ci si rende conto che è solo la lettera di un ragazzo che scrive alla sua amata, esprimendo l’afflizione per la lontananza e la speranza di poterla riabbracciare al più presto.

Nel testo non si narra di guerre, massacri, morti o campi di battaglia. Anzi la parola soldato compare solo nel titolo.

Per cui modificandolo potrebbe diventare anche la lettera di un giovane emigrante che scrive alla sua ragazza da “terre assaje luntane”.

’O surdato ’nnammurato, una lettera per la pace

 

Tu ca nun chiagne

 

1915 • Tu ca nun chiagne. Fu presentata nei primi mesi della Grande guerra. I versi sono di Libero Bovio. La musica è di Ernesto De Curtis, autore anche di Voce ‘e notte e Duorme Carmé.

Ma che deve la sua fama alla celeberrima Torna a Surriento musicata sui versi del fratello Giambattista, con cui formò un sodalizio che durò dal 1897, data della prima pubblicazione di ’A primma vota, fino alla sua morte nel gennaio del 1926.

La canzone descrive la tristezza di un innamorato deluso anche dall’indifferenza della Montagna che sembra non partecipe del suo stato d’animo.

Il profilo notturno del Monte Somma si staglia all’orizzonte come una persona stancamente adagiata alla luce di una pallida luna.

Mentre soffre le sue pene d’amore, si guarda intorno e si accorge che al contrario la natura che lo circonda condivide la sua infelicità. Ma questo non lo consola.

Tu ca nun chiagne è stata interpretata da tutti i più grandi tenori. Da Enrico Caruso a Mario Del Monaco, da Giuseppe Di Stefano a Luciano Pavarotti a José Carreras e Plácido Domingo.

Ma anche da tanti grandi nomi della musica italiana. E tra queste una personalissima interpretazione di Enzo Gragnaniello e la versione progressive pop con la quale Il Giardino dei Semplici nel 1975 ottenne il disco d’oro vendendo un milione di copie.

Tu ca nun chiagne, la freddezza di una donna capricciosa

 

Reginella

 

1917 • Reginella. Il Salone Margherita era un cafè chantant ispirato a quelli che stavano spopolando a Parigi durante la Belle Époque.

Erano gli anni del Mouline Rouge e delle Folies Bergère. I fratelli Marino, imprenditori teatrali che ebbero l’idea, trasportarono una piccola fetta di Parigi nella Galleria Umberto, che era in fase di progettazione.

I camerieri parlavano in francese e tutti gli artisti francesizzavano il proprio nome.

Libero Bovio si ispirò ad una ballerina di questo teatro per dare vita ad una canzone che musicata da Gaetano Lama è un’altra perla della canzone napoletana: Reginella.

Reginella è una ragazza che ha perso la sua semplicità scegliendo di diventare una sciantosa. Ovviamente cerca di parlare francese, frequenta persone raffinate e veste con ampie scollature.

Ma snobba il suo ex innamorato che non la riconosce più nella ragazza che è diventata, tuttavia cerca di ricordarle i giorni felici passati insieme.

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La canzone ha fatto da colonna sonora al film di Lina Wertmuller tratto dalla commedia di Eduardo De FilippoSabato, domenica e lunedì.

Pubblicata nel 1917 dalla casa editrice La Canzonetta, di Francesco Feola, divenne nell’anno successivo un cavallo di battaglia di Gilda Mignonette. Il cui vero nome era Griselda Andreatini, per cui si comprende bene la necessità di un nome d’arte.

Bravissima cantante e sciantosa era l’interprete ideale per rappresentare le illusioni di un’aspirante sciantosa come Reginella.

Sul periodico che stampava all’epoca la casa editrice La Canzonetta era pubblicato il testo originale e una traduzione che però non era quella letterale. Era un curioso arrangiamento in italiano, una sorta di cover ante litteram.

Reginella, piccola sciantosa della Belle Èpoque partenopea

 

’O paese d’ ’o Sole

 

1925 • ’O paese d’ ’o Sole. Negli anni Venti del Novecento oltre due milioni di italiani cercarono fortuna all’estero. 

Libero Bovio percepì la sofferenza di queste persone costrette ad abbandonare la propria terra e le proprie radici.

Lacreme napulitane e O paese d’ ’o Sole, scritte nel 1925, sono la testimonianza poetica di questa solidarietà.

O paese d’ ’o Sole ha per protagonista un emigrante che non ha resistito alla lontananza ed è tornato a Napoli. Il testo non segue lo schema classico della canzone napoletana di allora.

Non ci sono cuori spezzati né amanti distrutti. Solo l’incontenibile emozione dell’emigrante che torna al suo paese e ritrova la sua dimensione e la gioia di vivere.

Anche O paese d’ ’o Sole è stata interpretata da tutti i grandi tenori ma i cantanti che maggiormente hanno legato il proprio nome a questa canzone sono Mario AbbateErnesto MuroloClaudio VillaBruno Venturini.

È del 2017 una sontuosa esecuzione live dei giovani del trio Il Volo e Plácido Domingo, durante una serata di Tributo ai Tre tenori (Pavarotti, Carreras, Domingo).

’O paese d’ ’o Sole! Un inno alla bellezza di Napoli

 

Na sera ’e maggio

 

1938 • Na sera ’e maggio. Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi quando scrissero questa canzone andarono completamente fuori dai loro schemi abituali. Un canto d’amore struggente era molto lontano dalla loro produzione abituale.

Erano autori molto prolifici ma la loro forza era la canzone umoristica napoletana. Gigi Pisano aveva debuttato nel 1904 come comico nel café chantant, prima di entrare nella compagnia di Raffaele Viviani. Per sette anni si fece notare per la sua poliedricità. Fu cantante, comico, paroliere e attore.

Giuseppe Cioffi, invece, all’epoca giovane compositore appena diplomato al conservatorio. Si era nella seconda metà degli anni Venti e i due avviarono un lungo e straordinario sodalizio artistico.

Dalla loro collaborazione sono nate Ciccio Formaggio (cavallo di battaglia di Nino Taranto), Agata, M’aggia curà, Dove sta Zazà, Fatte fa’ ‘na foto.

Come abbiano fatto Pisano e Cioffi a scrivere, insieme a duemila canzoni macchiettistiche e umoristiche, ‘Na sera e maggio, così delicata e ricca di pathos forse rimarrà per sempre un mistero.

’Na sera ’maggio, il primo amore non si ‘scorda’ mai

 

Tammurriata nera

 

1944 • Tammurriata nera. Con le Quattro giornate Napoli si liberò dei Tedeschi con 18 mesi di anticipo rispetto al resto d’Italia. Gli alleati poterono entrare in città senza colpo ferire perché i teutonici, con la coda tra le gambe avevano lasciato la città e il Meridione il giorno prima. 

Ma quelli che seguirono non furono mesi facili. La città era stata semidistrutta dai bombardamenti. C’era fame e miseria. L’unica ricchezza, si fa per dire, era rappresentata dalle truppe di occupazione.

Napoli per due anni e mezzo divenne la retrovia degli alleati. Centomila militari di ritorno dal fronte di Cassino si riversarono nella città desiderosi solo di divertirsi e dimenticare gli orrori della guerra.

La città si organizzò prontamente per venire incontro ad una clientela che aveva una sola fissa. Cominciarono a crescere come funghi i bordelli. E per molte ragazze il corpo divenne merce di scambio per la sopravvivenza.

* * *

Ma è ovvio che quando il sesso diviene incontrollato comporta numerosi effetti collaterali, come le malattie veneree o le gravidanze indesiderate.

Tuttavia, la disastrosa condizione socioeconomica che viveva la città spingeva qualche marito o fidanzato a far finta di non sapere e ad accollarsi, in casi estremi, la paternità del bambino. Ma se il “figlio della colpa” nasce nero c’è poco da nascondere. Eppure…

I consuoceri E.A. Mario e Edoardo Nicolardi si ispirano ad un caso avvenuto in un reparto di ostetricia dell’ospedale Loreto Mare di Napoli, per raccontare i commenti e le pungenti allusioni dei curiosi.

Tammurriata nera fu portata al successo da Roberto Murolo e divenne cavallo di battaglia anche di Renato Carosone.

Tuttavia, ha raggiunto l’apice del successo con la coinvolgente versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, nel 1974.

Tammurriata nera, la follia di uno sfrenato mercato del sesso

 

Luna rossa

 

1950 • Luna rossa. Vincenzo De Crescenzo, autore del testo pare si sia ispirato a una sua vicenda personale: una intensa storia d’amore che si chiuse in maniera analoga.

Il poeta, infatti, si rese conto che l’amore era finito osservando il balcone vuoto, come non lo era mai stato. Mentre dall’alto una luna “rossastra” illuminava la notte.

Luna rossa fu musicata da Antonio Viscione, in arte semplicemente Vian. E fu presentata per la prima volta al Festival di Piedigrotta cantata da Giorgio Consolini.

Il successo fu immediato e strepitoso. In breve tempo fu conosciuta in tutto il mondo e tradotta in quasi 50 lingue.

Luna rossa fu anche la consacrazione di Vincenzo De Crescenzo come poeta e musicista di successo. Ma segnò anche un punto di svolta per la canzone napoletana.

De Crescenzo con le sue canzoni fu un dominatore del Festival di Napoli. Ma in seguito si schierò con quelli che lo vollero chiudere, quando si resero conto che lo spirito commerciale aveva preso il sopravvento su quello originale.

* * *

Vian, invece, iniziò la sua carriera di compositore nel 1936 con la canzone Dormiveglia ed entrò a far parte degli autori della casa editrice La Canzonetta.

Con il successo mondiale di Luna rossa la sua carriera di compositore ebbe un impulso notevole. Tra le canzoni che hanno segnato la sua carriera, la famosissima ‘O ritratto ‘e Nanninella.

Il mare, con testo del giornalista Antonio Pugliese, nel 1960 fu portata al Festival di Sanremo da Sergio Bruni, al culmine della propria carriera.

Una versione inglese intitolata Blushing Moon fu cantata da Frank Sinatra. E oltreoceano è stata interpretata anche da Ella Fitzgerald e Dean Martin.

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In Italia divenne cavallo di battaglia di Claudio Villa ed è entrata nel repertorio di un gran numero di star del mondo dello spettacolo.

Nella versione dell’Orchesta Italiana di Renzo Arbore una delle voci è stata quella di Eddy Napoli alias Eduardo De Crescenzo, figlio dell’autore e omonimo del cugino famoso cantautore napoletano.

“Luna rossa” fu chiamata anche la barca italiana che guidata dallo skipper napoletano Francesco De Angelis vinse la Louis Vuitton Cup nel 1999.

Luna rossa sulla fine di una storia d’amore

 

Anema e core

 

1950 • Anema e core. Lo spunto per il testo di Anema e core pare sia stato fornito all’autore Tito Manlio da una vivace ma futile discussione con la moglie.

Infatti, il protagonista della canzone si chiede come può un amore, così pieno di passione, essere messo in crisi da banali ripicche.

Tuttavia, è convinto che anche la sua amata aldilà di tutto desidera quanto lui di stare insieme senza lasciarsi “nemmeno per un attimo”: “tenendosi così, anima e cuore”.

Il titolo originale doveva essere Che matenata ‘e sole. Ma sulla base delle considerazioni fatte dal maestro Salve D’Esposito, autore della musica, sarebbe stato inopportuno. In quel periodo andava forte un’altra loro canzone dal titolo simile, Me so ‘mbriacato ‘e sole.

Nessuno oggi si sarebbe posto questo problema ma allora e per molti decenni a seguire l’originalità era un principio dell’arte e della creatività in tutti i campi.

Anema e core, canzone del 1950, ricevette un battesimo d’eccezione. Infatti, per la prima volta venne cantata alla radio da Tito Schipa accompagnato dallo stesso maestro D’Esposito.

Il successo fu immediato sia in Italia che all’estero. Nel 1954 ascese all’Olimpo della canzone napoletana, un particolare Museo virtuale, accanto a capolavori quali Marechiaro, ’O sole mio, Core ’ngrato. Nel 1955 batte il record di incisioni. 58 solo in Italia.

La melodia di Anema e core arrivò persino nella Russia sovietica ed emozionò i cuori duri degli eroi rivoluzionari. Sukhan Babayev, segretario generale del Partito comunista del Turkmenistan pare ne sia rimasto affascinato dopo averla sentita canticchiare da Pietro Nenni.

Nonostante fosse una canzone italiana venne trasmessa dalla radio russa. Un evento straordinario e senza precedenti nel pieno della Guerra fredda.

Anema e core emoziona anche i rivoluzionari russi

 

Malafemmena

 

1951 • Malafemmena. Il grande Totò, in versione cantautore, scrisse e musicò questa canzone presentata nel 1951 al concorso di Piedigrotta La Canzonetta da Mario Abbate.

Il testo della canzone è ispirato ad una vicenda personale del Principe della risata. La storia d’amore con una donna dalla bellezza sconvolgente. Una faccia d’angelo che però serve a nascondere la sua natura ingannatrice.

Almeno secondo l’uomo che l’ama alla follia e viene rifiutato. Un rifiuto che non riesce ad accettare né a comprendere. Per i giornali dell’epoca l’attrice Silvana Pampanini era la donna della canzone.

In effetti Totò l’aveva conosciuta sul set di 47 il morto che parla e aveva letteralmente perso la testa per lei.

* * *

In tempi più recenti però Liliana De Curtis, figlia di Totò, ha rivelato che la vera destinataria della canzone era la madre Diana Rogliani, come dimostra la dedica allegata al testo depositato alla Siae.

Anche se certo “malafemmina” non era un’accusa che poteva rivolgere alla Rogliani. Infatti, Diana aveva semplicemente perso la pazienza per le continue scappatele del marito, e lo aveva lasciato.

Dal racconto di Liliana risulta che secondo l’interpretazione personale di Totò la moglie era venuta meno ad un accordo raggiunto in fase di separazione.

Tralasciava di considerare che l’accordo era tutto a svantaggio di Diana e rendeva lui padrone di correre la cavallina in piena libertà.

Aldilà delle premesse, Malafemmena resta il più grande successo musicale di Totò, come ‘A livella lo è tra le sue poesie.

La nascita di Malafemmena è raccontata dallo stesso Totò in un video tratto da un documentario reperibile su Youtube.

Il Principe dice: «Mi ricordo ero a Formia. Giravo alcune scene di un film (Totò terzo uomo n.d.r.). Su un pacchetto di sigarette scrissi i versi e li feci sentire al mio autista, a cui non piacquero. Non capì niente! Con il fischietto feci il motivo. L’aria. Non è difficile, le parole stesse portano alla musica».

Malafemmena, il mistero svelato della musa ispiratrice

 

’O sarracino

 

1958 – ’O sarracino. Presuntuoso e consapevole del suo fascino attraversa le strade della città pavoneggiandosi. Spavaldo con la sigaretta in bocca e le mani in tasca. Sa di essere un rubacuori. Un Casanova partenopeo.

Eppure, tutte queste certezze crollano quando una “rossa” con un bacio e con un ballo lo trascina in un vortice di passione. Questa novella Circe riduce il dongiovanni a povero spasimante tormentato da un amore mal corrisposto.

’O sarracino canzone del 1958 è una delle tante nate dalla lunga collaborazione tra Renato Carosone e Nisa, al secolo Nicola Salerno.

Un matrimonio che diede vita a un gran numero di successi tra cui MaruzzellaTu vuò fa l’americano, Pigliate ‘na pastiglia, Torero e Caravan Petrol. Quest’ultima fu pubblicata sul lato B del singolo de ‘O sarracino.

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Renato Carosone, all’anagrafe Renato Carusone è stato uno dei più grandi e completi musicisti italiani del dopoguerra. Cantautore, direttore d’orchestra, compositore, pianista, jazzista.

La sua musica è una fusione di stili e ritmi tra i più differenti. Svaria dalla tarantella alla musicalità etnica africana, a quella orientale e americana con estrema disinvoltura.

Ma Carosone con le sue canzoni macchiettistiche e cariche di ironia trasmette anche lo spirito degli anni che vanno dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta.

Renato Carosone, insieme a Domenico Modugno è stato l’unico italiano a vendere dischi negli Usa senza traduzione in inglese.

’O sarracino, sciupafemmine stregato da una rossa

 

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