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Cultura & Curiosità

Bugnato del Gesù Nuovo, il mistero della chiave occulta

Un bugnato segnato dal mistero. È quello della chiesa del Gesù Nuovo o Trinità Maggiore. Un raro esempio di bugnato a punta di diamante.

Di simili ne esistono solo altri tre nel mondo. Due in Italia. Palazzo Diamanti a Ferrara e palazzo Sanuti-Bevilacqua a Bologna. E un altro in Spagna, a Barcellona.

Ma per qualcuno l’unicità di questo bugnato non deriva dall’interesse artistico ma dai graffiti che compaiono su ogni singola bugna. Cioè su ognuna delle pietre di piperno che sporgono come piccole piramidi.

Ma cosa sono questi segni? Tre le principali teorie. Una chiave occulta per caricare l’edificio di energia positiva. Delle lettere aramaiche convertibili in note musicali. Una simbologia esoterica.

È chiaro che una risposta definitiva a queste teorie non potrà mai arrivare. Infatti, l’hanno portata nella tomba i maestri del piperno autori di quei segni. Di conseguenza ognuno è libero di dare credito alla teoria che più lo convince.

 

La confraternita dei maestri del piperno

 

La prima ipotesi sembra essere solo una leggenda. Considera quei tagliatori del piperno depositari di segreti esoterici tramandati oralmente. Quindi una sorta di confraternita capace con le proprie conoscenze alchemiche di caricare di energia le pietre lavorate.

Si supponeva che vi fosse una chiave occulta applicata dai maestri del piperno per stabilire l’energia trasmessa all’edificio.

I segni sulle bugne dovevano infondere la carica positiva. Ma un errore poteva ottenere l’effetto opposto. In pratica quello che sarebbe successo al palazzo Sanseverino di cui il bugnato rappresenta la facciata principale.

Infatti, la storia di questo palazzo inizia nel 1470 quando Roberto Sanseverino, principe di Salerno lo commissionò a Novello di San Lucano. L’architetto nella realizzazione dell’immobile si avvalse dell’opera di validissimi maestri nell’arte della lavorazione del piperno.

 

Grandi maestri e incapaci scalpellini

 

Ovviamente era sottinteso che con i loro segreti avrebbero caricato l’edificio della desiderata energia positiva. Purtroppo, non tutti si dimostrarono grandi maestri.

Tra loro doveva esserci qualche incapace scalpellino che per imperizia commise degli errori fatali. Per cui il flusso di energia cambiò polarità divenendo negativo.

E la cosiddetta reggia dei Sanseverino non portò bene a nessuno dei suoi proprietari. Però secondo un’altra versione questi maestri furono corrotti al fine di convogliare verso l’esterno le energie positive e all’interno quelle negative.

Il primo a farne le spese fu il figlio del principe, Antonello. Nel 1485 l’erede ebbe la pessima idea di mettersi a capo della famosa Congiura dei Baroni. Anche se la fortuna e l’intuito gli permisero di non cadere nella trappola ordita da Ferrante d’Aragona.

 

L’inganno di Ferrante d’Aragona

 

Infatti, il re dopo aver “perdonato” i congiurati li attirò con l’inganno nel Maschio Angioino. In quella che ricordando l’evento è diventata la Sala dei Baroni.

Era il 1487. Ferrante li invitò con la scusa di celebrare le nozze della nipote. E anche la pace ritrovata. Ma li fece arrestare e condannare a morte.

Antonello non si era fidato delle promesse del re, e travestito da mulattiere aveva attraversato le Alpi per rifugiarsi in Francia. Ma non poté impedire la confisca dei beni.

In seguito, i Sanseverino ottennero grazie alla benevolenza di Ferrante la restituzione dei beni. E anche un contributo del re per l’abbellimento del palazzo e la costruzione dell’attuale facciata.

Roberto II, figlio di Antonello, e la moglie Isabella Villamarina aggiunsero magnificenza al palazzo che diventò anche punto d’incontro culturale. Oltre che famoso come la Reggia dei Sanseverino.

 

Ferrante Sanseverino contro don Pedro di Toledo

 

Purtroppo, anche il figlio di Roberto, Ferrante, al pari del nonno, ebbe l’ardire di sfidare il potere che all’epoca era rappresentato dal viceré don Pedro di Toledo.

Quest’ultimo voleva introdurre l’Inquisizione a Napoli ma come ogni volta accadrà, il popolo si ribellò e costrinse don Pedro a fare marcia indietro.

Ma il viceré non perdonò a Ferrante di essersi schierato a favore degli insorti in quella che era da considerarsi una rivolta antispagnola. Gli fece confiscare i beni e lo mandò in esilio.

Il palazzo fu venduto ai Gesuiti da Filippo II di Spagna. A buon prezzo ma con l’obbligo di non toccare la facciata con il bugnato.

 

Palazzo Sanseverino diventa Basilica

 

I Gesuiti si attennero al patto e si affidarono per la demolizione dell’edificio esistente e la costruzione delle nuove strutture a due confratelli. Gli architetti Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi realizzarono la magnifica basilica e gli spazi annessi. Nel corso dei secoli sono intervenute numerose modifiche.

Non ultima quella che ha aggiunto gli elementi che la fanno ritenere una costruzione barocca. Anche se in effetti la struttura di base è sostanzialmente rinascimentale.

Comunque, anche i Gesuiti furono colpiti dalla maledizione di Palazzo Sanseverino, sia pur divenuto nel frattempo basilica.

 

La maledizione di palazzo Sanseverino colpisce i Gesuiti

 

Infatti, nel 1767 Ferdinando IV di Borbone, che già non li sopportava, seguendo l’esempio del padre Carlo III espulse i Gesuiti dal Regno di Napoli. La colpa dei chierici era quella di interferire troppo negli affari di stato e tramare con ogni mezzo contro i re.

Per i Gesuiti l’espulsione dalla Spagna, da Napoli e non solo, era molto più grave di quanto potrebbe apparire. Infatti, il Vaticano all’epoca non era propenso alla solidarietà. Non apriva le porte a nessuno. Anzi le teneva sbarrate.

Il re Nasone dopo l’espulsione della Compagnia di Gesù consegnò la chiesa ai frati francescani. Solo nel 1821 i Gesuiti poterono rientrare in possesso della loro chiesa.

 

Lo spartito aramaico del bugnato

 

La seconda ipotesi. La più recente in ordine di tempo è quella del musicofilo e storico dell’arte Vincenzo De Pasquale.

Nel 2010 il De Pasquale annunciò la sua straordinaria scoperta. I segni sul bugnato erano delle lettere aramaiche e formavano uno spartito. Dovevano essere lette al contrario, dal basso verso l’alto e da destra a sinistra. Da questa interpretazione scaturì un’opera intitolata Enigma.

In questa ricerca si era avvalso della collaborazione di due ungheresi, il musicologo Lòrànt Réz, e il gesuita esperto di lingue antiche Csar Dors.

Lo strano metodo utilizzato da Lòrànt Réz per arrivare a quelle note è raccontato da De Pasquale in un’intervista a InCampaniaTV.

 

La strana formula e la sezione aurea del bugnato

 

Lo studioso italiano si incontrò con l’amico in un ristorante di Eger, nel nord dell’Ungheria. E ricorda: «Sul retro di un menù, quindi un pezzo di carta bianca [Réz] inizia a segnare il bugnato del Gesù. E dice che sta applicando la legge di Vitruvio sulla sezione aurea. Quindi l’equazione: caos: più o meno architettura, più o meno matematica, più o meno musica, uguale perfezione.»

Per un comune mortale appare difficile comprendere come questa formula, o presunta tale, possa portare a qualche cosa. Invece De Pasquale estrae dalla tasca un piccolo registratore e fa ascoltare le prime note di quella che sarà Enigma.

 

Parole sacre in aramaico sul bugnato

 

Inoltre, come spiega lo studioso, dall’analisi di quei segni risultano anche delle parole sacre. Csar Dors ha tradotto quei segni prima in aramaico, la lingua di Gesù, e poi in latino ottenendo il testo di un salmo.

 Alla realizzazione di questa opera diedero il loro contributo anche altri studiosi. Però, che si voglia accettare o meno, un dato è inoppugnabile.

La composizione è stata eseguita. Quindi De Pasquale & C. potrebbero ritenere la loro teoria più fondata di altre perché sostenuta da una dimostrazione.

 

 I segni sul bugnato non sono caratteri aramaici?

 

Tuttavia, questa interpretazione è stata messa in discussione da uno studioso di ermetismo e simbologia esoterica, Stanislao Scognamiglio. Dal suo punto di vista i segni sulle bugne non sono caratteri dell’alfabeto aramaico.

Possono invece essere sovrapponibili ai simboli operativi dei laboratori alchemici in uso fino al Settecento.

Scognamiglio dichiara testualmente: «Voglio a tal proposito sostenere, che sì, è vero che Enigma è stato eseguito, ma sfido chiunque a eseguire qualunque sequenza armonica codificata, qual è l’insieme dei glifi sul bugnato».

Tanto più, sostiene lo studioso che glifi di stessa natura si trovano sulle mura greche a piazza Bellini e su altri edifici antecedenti alla chiesa del Gesù Nuovo.

Si chiede quindi: «Sono tutti spartiti musicali?». E non ritiene nemmeno che siano tutte ricette alchemiche.

Comunque, Scognamiglio proseguendo nella ricerca, tra prove bibliografiche e iconografiche arrivò anche ad una interessante scoperta. Una tavola periodica del Settecento, nella quale sono riportati i singoli grafemi alchemici di laboratorio, moltissimi dei quali sovrapponibili a quelli di piazza del Gesù.

 

Verità spicciola, ricerca o voli pindarici?

 

Chi con un colpo di spugna cancella leggende e interpretazioni varie è il parroco della chiesa del Gesù Nuovo Vincenzo Sibilio. Il gesuita dichiara senza mezzi termini:

«Alcuni vogliono intravedere sulle bugne delle sigle misteriose. Ma non sono né un pentagramma né simboli esoterici. Era solo la firma degli scalpellini come dimostrazione delle pietre che avevano lavorato. Quindi il salario che gli era dovuto

Ma non è il solo a sostenere questa tesi. Tanti addetti ai lavori, tra cui molti architetti, condividono questa visione spicciola della questione.

Tuttavia, se questa è la cruda verità, che delusione per quanti hanno dedicato anni di studio alla ricerca di un mistero che non è un mistero.

 

Tengo ’e làppese a quadriglié

 

Un dato inoppugnabile è la complessità strutturale del bugnato del Gesù Nuovo. Centinaia di bugne piramidali accostate obliquamente. Un impianto difficilissimo realizzato da maestri di grande bravura. Quindi un’opera stressante e tale da far venire il mal di testa.

 E a questo stress si ispira l’espressione popolare napoletana: «Tengo ’e làppese a quadriglié p”a capa». Cioè: «sono assillato dalle preoccupazioni, mi scoppia la testa, lasciatemi stare».

Ma cosa sono questi làppese a quadriglié? Sono la deformazione fonetica di un’espressione latina riferita ad un tipo di costruzione muraria romana.

L’ opus reticulatum detta anche lapis quadratum da cui l’alterazione in lapis quadrellatum e la storpiatura in spagnolo-napoletano lappese a quadriglié.

L’opus reticulatum, l’opera reticolata, era la costruzione di una parete composta da blocchetti di pietra tagliati a forma di piramidi con base quadrangolare. Venivano sovrapposte obliquamente con la stessa tecnica del bugnato. La differenza era che le punte piramidali venivano conficcate nel muro di cemento. Esternamente il muro risultava piastrellato ma piatto. Quindi meno artistico ma con la stessa complessità del bugnato a punta di diamante.

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