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Tradizioni

Struscio del Giovedì Santo, rito sacro molto profano

Lo struscio della Settimana Santa è una tradizione di origine borbonica. Sviluppa il suo spirito originale durante il Settecento e i primi dell’Ottocento. Poi prosegue nella forma più che nella sostanza e si esaurisce arrivando ai giorni nostri.

Qualcuno ritiene che lo struscio continui ancora oggi nelle principali città italiane. Dalla Lombardia alla Sicilia. Ma si tratta di una forzatura.

In realtà si passeggia e ci si incontra come nelle serate del fine settimane o dei giorni festivi. In particolare, nei piccoli centri. Quindi niente a che vedere con l’antico rituale della Settimana Santa

Anche a Napoli, in quello che era il più famoso struscio settecentesco, manca la solennità che lo caratterizzava. Persino percorrendo via Toledo, e visitando i Sepolcri durante il Giovedì Santo, si ritrova quel fascino antico.

 

Il viceré interdice l’uso delle carrozze

 

Tra l’altro, volendo essere pignoli, il nostro abbigliamento renderebbe il termine incongruente. Lo strùscio era riferito allo struscìo, cioè allo strofinio dei vestiti delle dame e delle suole delle scarpe.

La folla che si muoveva lungo via Toledo era impressionante. Ci si spostava senza staccarsi dal lastricato della strada.

E le signore, che all’epoca avevano quei vestiti sontuosi di stoffe pregiate, sfregandoli nella calca determinavano il fruscìo, cioè il sibilo da cui prendeva nome lo struscio.  

Questo fenomeno ebbe origine da un divieto. Infatti, nel 1704 il viceré Juan Manuel Fernández Pacheco vietò l’uso delle carrozze dal Giovedì al Sabato Santo dopo lo “scioglimento delle campane”.

 

Una lotta a spintoni nella baraonda di via Toledo

 

L’interdizione imposta inizialmente su tutto il territorio cittadino fu poi limitata al tratto compreso tra piazza Dante e piazza Plebiscito.  

Infatti, era proprio questo il percorso più pericoloso. La causa era la bolgia infernale che si verificava durante la visita ai Sepolcri della Settimana Santa.

Il vanaglorioso passaggio dei nobili in carrozza durante questi giorni creava il caos. E metteva in pericolo l’integrità fisica della marea umana che proseguiva a piedi.

Questa provvidenziale decisione non impedì la baraonda ma mise tutti in condizioni di partecipare ad armi pari. Infatti, si lottava spintonandosi l’un l’altro per farsi largo, ma almeno senza il pericolo di finire arrotati dalle carrozze.

Insomma, via Toledo diventava più o meno come adesso nelle giornate dello shopping compulsivo.

 

Lo struscio nei sogni delle zitelle

 

Piuttosto, quello che stupisce è che questo fenomeno improntato alla religiosità era un evento mondano. Era una ghiotta occasione per sfoggiare gli abiti più sfarzosi cercando di suscitare ammirazione e invidia.

Non per niente, in tempi più recenti si parlava di struscio anche in senso figurato. Deridendo chi si incignava, cioè indossava l’abito nuovo, e passeggiava per farsi ammirare dai conoscenti.

O riferendosi alle ragazze da marito che venivano agghindate dalle mamme e portate in giro alla ricerca del buon partito.

Ovviamente si parla degli anni in cui per molte persone l’abito nuovo rappresentava un evento. Oggi sarebbe anacronistico.

 

Lo struscio dei poveri e quello dei ricchi

 

Nel Settecento la situazione era diversa. Da un lato c’era chi aveva tutto, dall’altro chi non aveva niente. Nella calca di via Toledo ovviamente abbondavano i primi.

Anche se ci fu un periodo che per evitare questo ulteriore caos si separarono le visite ai Sepolcri. Il Giovedì Santo per la plebe. Il Venerdì Santo per i ricchi e i nobili.

Di solito anche la corte reale partecipava a questo rito tradizionale. Mantenendo la necessaria “regalità”.

Forma non necessaria per Ferdinando IV, un re che fuori dagli schemi e tra la gente dava il meglio di sé. Ovviamente era seguito dal suo codazzo di cortigiani e opportunamente scortato dalle guardie reali. Tutti magnificamente “bardati”.

 

Dallo sfoggio di magnificenza al velo di contrizione

 

Però si arrivò ad un punto che persino Ferdinando dovette rendersi conto che era stato superato ogni limite. E invertì decisamente la rotta.

Le dame che andavano a visitare i Sepolcri sfoggiando troppa magnificenza davano scandalo, offendendo la sacralità dell’evento.

Per cui, da quel momento, le signore avrebbero dovuto “fare i Sepolcri” adornate solo di un velo.

Ma non si può tralasciare l’elemento culinario che completava il rito tradizionale del Giovedì Santo. Al rientro dai Sepolcri era prevista la zuppa di cozze. Che al contrario dello struscio rispetta ancora oggi le tradizioni.

Ma in buona sostanza, in cosa consisteva e che cosa ottenevano i fedeli con lo struscio, aldilà della folcloristica coreografia?

Innanzitutto, consisteva nella visita ad un numero dispari di chiese, da tre a sette per l’adorazione del repositorio, comunemente detto Sepolcro. Cioè degli altari allestiti per l’occasione. Riccamente decorati con fiori e candele nei quali viene riposta l’Eucarestia. Vengono preparati il Giovedì Santo e restano fino al Venerdì Santo.

 

Lo spirito vero dello struscio

 

La tradizione vuole che ad ogni sepolcro si reciti il Gloria Patri, l’Ave Maria e il Padre nostro.

Comunemente si tende a ritenere che il numero delle chiese da visitare sia simbolicamente rilevante. Tre come la Trinità. Cinque come le piaghe di Cristo. Sette come i dolori della Madonna.

Teologicamente però il numero simbolicamente più rilevante è il sette. Indica i gradi della perfezione, le sfere celesti, i rami dell’albero cosmico e i maggiori pianeti del sistema solare.

La visita alle sette chiese consente di ottenere l’indulgenza plenaria. Uguale quindi a quella concessa nel Giubileo.

 

Le sette chiese dello  struscio

 

Le sette chiese che si trovano lungo via Toledo e rappresentano il percorso classico sono:

Basilica dello Spirito Santo

o complesso dello Spirito Santo. Si trova lungo via Toledo in piazza Sette Settembre di fronte a palazzo Doria d’Angri. La piazza prende il nome dalla data in cui Giuseppe Garibaldi, dal balcone di palazzo Doria d’Angri, annunciò l’annessione del regno delle Due Sicilie a quello d’Italia. Per molti napoletani questa data è l’esatto opposto del 25 aprile.

La chiesa di San Nicola alla Carità

È posta al centro della città, lungo via Toledo. Tra piazza Carità e piazza Dante. La facciata monumentale fu realizzata da Cosimo Fanzaga su disegno di Francesco Solimena. La chiesa custodisce opere eseguite dai maggiori pittori del Settecento napoletano. Fu fondata nel 1647 da Carlo Carafa per i padri Pii Operai Catechisti Rurali (Missionari Ardorini). Ma la realizzazione completa avvenne solo nel 1682. È una delle più belle e significative chiese barocche napoletane.

Chiesa di San Liborio alla Carità.

È situata nella via omonima, nella zona della Pignasecca. Fu costruita nel 1694 come parrocchia annessa al monastero di Santa Maria della Carità. Nel 1957 la chiesa, divenuta pericolante, fu chiusa e sconsacrata. Le sue funzioni furono trasferite alla chiesa di Santa Maria della Carità. In seguito, diventata parrocchia di San Liborio alla Carità. In questa chiesa furono battezzati, il musicista Domenico Scarlatti e il pittore Bernardo Cavallino.

Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Toledo.

Ubicata proprio lungo via Toledo porta alle spalle una storia alquanto travagliata. Fondata dai Teatini nel 1628 e intitolata a Santa Maria di Loreto, subì nel 1725 una ristrutturazione “peggiorativa”. Fu sconsacrata nel 1806 con la cacciata dei Teatini dal Regno delle Due Sicilie. Divenne tribunale e poi venne affidata ad una Confraternita. La riedificazione della chiesa è dovuta a Ferdinando II. L’altare maggiore fu realizzato da Giuseppe Sanmartino, l’autore del Cristo velato.

Chiesa di Santa Brigida.

Si trova nella via omonima a pochi passi da via Toledo. Progettata da Natale Longo nel 1640, fu completata solo un secolo dopo, nel 1726. La cupola che nel progetto risultava maestosa dovette essere ridimensionata per esigenze militari. Poteva risultare un ostacolo per le cannoniere del Maschio Angioino.  All’interno della cupola, è stata affrescata da Luca Giordano l’Apoteosi di Santa Brigida ed Eroine bibliche. Lo stesso autore, che ha dipinto altre numerose opere nella chiesa e riposa in quel tempio.

Chiesa di San Ferdinando.

Si trova in piazza Trieste e Trento, vale a dire alla fine di via Toledo e adiacente a piazza Plebiscito. Quindi penultima tappa dei Sepolcri. È una chiesa monumentale fondata nel Seicento dai Gesuiti grazie ad una donazione della vedova del viceré di Napoli, Pedro Fernando de Castro. Anche i lavori di questa chiesa dovettero essere interrotti a causa della cupola che doveva essere ridimensionata per esigenze militari.

Basilica reale pontificia di San Francesco di Paola.

È l’ultima tappa delle visite ai Sepolcri del Giovedì Santo. Questo indipendentemente dal numero. Tre, cinque o sette. Lo spazio antistante la basilica, cioè piazza Plebiscito fu creato da Gioacchino Murat. Il sovrano francese nell’ambito di un più ampio riassetto urbanistico fece abbattere tutti gli edifici, spesso malfamati, che si trovavano nella zona. Lo spazio che attualmente occupa piazza Plebiscito doveva diventare Gran Foro Gioacchino. Ma Murat non poté portare a termine il suo progetto, iniziato nel 1809. Con la caduta di Napoleone e la sua sconfitta a Tolentino, Ferdinando IV poté rientrare a Napoli. Il re Nasone, aveva fatto voto a san Francesco di Paola, affinché intercedesse per il suo ritorno sul trono di Napoli. E al suo rientro quindi onorando la promessa fece iniziare la costruzione della chiesa e del porticato circolare. Tra le richieste fatte dal re all’architetto che realizzò il progetto ce n’era una su tutte. L’altezza della cupola non doveva superare quella del Palazzo Reale, posto proprio di fronte. La struttura in stile neoclassico si ispira al Pantheon di Roma.

 

Jì facenne ‘e ssette chiesielle

 

Da questa tradizione nasce anche il detto napoletano: “Jì facenne ‘e ssette chiesielle”. Letteralmente: andare facendo (visitando) le sette chiesette. In pratica lo struscio della Settimana Santa.

Con questa espressione ci si rivolge ad una persona che pur avendo degli obblighi precisi perde tempo facendo tappe inutili lungo il percorso. Ma anche al noioso perditempo che senza un particolare invito va gironzolando per le case di amici e parenti, magari per spettegolare.

 

Lo struscio di Raffaele Viviani

 

Ma lo struscio viene raccontato anche da Raffele Viviani in una poesia. Versi da cui emerge tutta la spontaneità del suo spirito popolaresco napoletano. La delusione di una mamma che ha accompagnato allo struscio la figlia, ansiosa di trovare marito. Ma alla fine anche quell’anno se ne torna a casa con la figlia zitella.

Giovedì Santo ‘o «struscio» è nu via vaie:

Tuledo è chiena ‘e gente ‘ntulettata,

ca a pede s’ha da fa’ sta cammenata,

pe’ mantene’ n’usanza antica assaie.

– Mammà, ci andiamo? – Jammo. Ma che faie?

– Vediamo due sepolcri e ‘a passeggiata.

E ‘a signurina afflitta e ‘ncepriata

cerca ‘o marito ca nun trova maie.

‘A mamma ‘areto, stanca, pecché ha visto

ca st’atu «struscio» pure se n’è ghiuto,

senza truva’ chill’atu Ggiesucristo,

s’accosta a’ figlia: – Titine’, a mammà,

ccà cunzumammo ‘e scarpe. – L’ho veduto.

E me l’hai detto pure un anno fa.

  

Traduzione

 

Giovedì Santo lo «struscio» è un via vai:

Toledo è piena di gente elegante

che a piedi si deve fare questa passeggiata

per tener viva un’usanza assai antica

– Mammà, ci andiamo? – Andiamo. Ma che fai?

– Vediamo due sepolcri e la passeggiata.

E la signorina afflitta e incipriata

cerca il marito che non trova mai.

La mamma dietro, stanca, perché ha visto

che quest’altro «struscio» pure se n’è andato

senza trovare quell’altro Gesù Cristo,

si accosta alla figlia: – Titinella, a mammà,

qua consumiamo le scarpe. – L’ho visto.

E me lo hai detto pure un anno fa.

© Riproduzione riservata 

Nella foto: Via Toledo sotto la pioggia. Dupinto di Carlo Brancaccio.

 

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