Piatto di pasta al ragù
Tradizioni

Il ragù napoletano, la ricetta di Eduardo De Filippo

Il termine ragù proviene dal francese ragoût (uno stufato di carne) che a sua volta deriva dal verbo ragoûter cioè “risvegliare il gusto”.

Però verrebbe da chiedersi: come mai una pietanza tipicamente napoletana ha una derivazione lessicale francese?

Perché in effetti non solo la radice etimologica ma l’intera ricetta proviene dai cugini d’oltralpe, sia pure parzialmente.

Sembrerà strano ma non lo è affatto. Bisogna ritornare nella seconda metà del Settecento alla corte di Napoli. La regina Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV, il famoso Re Lazzarone, detestava tutto quello che proveniva dalla cultura e dalle tradizioni napoletane.

 

A Napoli arrivano i Monsù

 

Sorella di Maria Antonietta, quella che perse la testa con la Rivoluzione francese, adorava i fasti e la raffinatezza della corte di Francia.

Chiese quindi all’amata e invidiata sorella che facesse venire a Napoli dei grandi chef per contrastare i gusti, ritenuti molto grossolani, del marito e della cucina napoletana.

I Monsù, storpiatura di Monsieur dato a questi chef, non intaccarono minimamente la cucina partenopea, ma portarono numerose prelibatezze che ancora oggi gustiamo. Il sartù di riso, il cattò di patate, storpiatura di gâteau, cioè torta in senso generico.

Tra questi nuovi piatti anche il ragoût, sostanzialmente un antenato del ragù ma senza il pomodoro. L’aggiunta di questo ingrediente e una diversa elaborazione daranno vita, in seguito, al prelibato ragù napoletano.

 

La leggenda del piccolo Raù

 

Tra le leggende napoletane c’è quella dell’origine della pietanza. La derivazione del termine ragù viene attribuita a Raù, figlio di un  potente signorotto napoletano, protagonista della vicenda che raccontiamo. 

Questo signore abitava nel Palazzo dell’Imperatore di Costantinopoli. Vale a dire in quello che era stato dimora dell’imperatore Carlo I e successivamente di Maria di Valois figlia di re Carlo d’Angiò. L’edificio esiste tuttora. Noto come Palazzo Filippo D’Angiò, si trova in via Tribunali a Napoli.

In quella nobile e storica casa il signore, del quale non viene mai rivelato il nome, viveva isolato dal mondo esterno. Odiato e temuto, era nemico di tutti e tutti evitavano qualsiasi contatto con lui.

All’epoca, la Compagnia dei Bianchi della Giustizia era una confraternita che, con le proprie opere di “pace e misericordia” era riuscita ad essere di esempio alla popolazione. I suoi insegnamenti sortivano grande successo nella città partenopea e spingevano molti ad appianare antichi rancori.

A proposito dell’epoca però bisogna puntualizzare che non era certamente quella che da più parti si legge, cioè la fine del Trecento. Infatti, è vero che si tratta solo di una leggenda ma non per questo può ignorarare un ineluttabile fatto storico. La Confraternita fu fondata da un sacerdote francescano nella seconda metà del Quattrocento.

Comunque, aldilà della data, un giorno, i confratelli percorrendo la città, come erano soliti fare, si fermarono davanti al palazzo del signore. Bussarono alla sua porta nella speranza di essere ricevuti e portare il loro messaggio di pace, ma il suo rifiuto di incontrarli fu sprezzante.

 

Il miracolo dei maccheroni al ragù

 

Nemmeno un miracolo nella sua famiglia, riuscì a placare il suo livore. Infatti, quando Raù, il figlio di tre mesi sfilò le braccia dalle fasce e invocò per tre volte “misericordia e pace”, il padre rimase impassibile e non mostrò alcuna emozione né turbamento.

La sua vita era guidata solo dall’odio e dal rancore. Sua moglie, le aveva provate tutte per intenerirlo, ma senza riuscirci. Quasi rassegnata decise, come extrema ratio, di prenderlo per la gola.

Lo fece preparando il piatto preferito del marito: i maccheroni. Erano in bianco. Ma quando li portò in tavola come per incanto  si condirono prodigiosamente con un sugo che sembrava sangue.

L’uomo rimase sconvolto e la paura gli fece passare anche l’appetito. Osservò a lungo e impietrito il sangue che condiva il suo piatto preferito. Poi si ritirò e si chiuse ancora di più in se stesso. Ma qualcosa di indefinito lo tormentava senza tregua.

Poi, come San Paolo sulla strada di Damasco, sempre tormentato dalla paura, scelse di seguire la strada indicata dalla Compagnia dei Bianchi: si pentì del suo passato, cercò di rimediare e, addirittura, aderì alla Confraternita.

 

Il sangue del ragù diventa sugo

 

La moglie ritenne che questa conversione meritasse di essere celebrata con la stessa portata che l’aveva determinata.

Ma, ancora una volta, i maccheroni appena portati in tavola si condirono con quella salsa simile al sangue. Però, diversamente dalla volta precedente, quell’intingolo emanava un indescrivibile e invitante profumo. Quindi, dopo il turbamento iniziale, il signore sentì un’attrazione irrefrenabile e volle assaggiarla.

Rimase di sasso ancora una volta ma in questo caso non per la paura. La causa era il sapore straordinario di questo sugo che aveva scambiato per sangue.

Si rese conto di non aver mai gustato una prelibatezza del genere e stabilì che l’unico nome che potesse renderle un onore adeguato fosse quello del figlio: Raù. Quindi la prelibatezza della cucina napoletana diventò: ’o rraù.

 

La ricetta di Eduardo

 

Preparare un ragù degno della sua fama è un’arte. Un rituale “sacro” che si perde in una tradizione secolare. Una tradizione che impone i suoi canoni basilari ma lascia spazio anche alla creatività. Ogni cuoco, cultore o professionista, ha i propri segreti che applica e nasconde.

Eduardo De Filippo era uno dei più grandi estimatori del ragù che però, teneva a precisare, non è una semplice carne con il pomodoro. Ed espresse questa sua filosofia anche in versi con la poesia ‘O rraù.

 

‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.

 

Il ragù di mammà era un’altra cosa

 

Nella poesia il protagonista manifesta il suo disappunto per una salsa che la moglie vorrebbe propinargli come “ragù”. La ritiene una pretesa quasi blasfema. Il vero ragù era quello che gli preparava mammà. Un piacere a cui ha dovuto rinunciare da quando si è sposato. Per quieto vivere è disposto anche a rinunciare a questa tradizione. «Perché litigare? Tu dici che questo è ragù? E io me lo mangio tanto per mangiare. Ma vorrei aggiungere una parola: questa è solo carne con il pomodoro.».

Il grande Eduardo aveva una sua ricetta. Prevede la cottura su una fornacella a carbone, in un tegame di terracotta largo e basso.

Il sugo deve essere rimestato con una cucchiarella di legno e deve cuocere molto lentamente. Come si dice a Napoli, deve “pappuliare” per almeno sei ore.

 

I peccati contro la sacralità del ragù

 

La pasta ideale per il ragù sono i paccheri. Ma vanno altrettanto bene ziti e candele spezzate. La scelta della carne è abbastanza ampia, va bene sia quella bovina che quella suina. Nella ricetta classica è preferito il muscolo di manzo.

Però, per chi non non ha paura di sfidare il colesterolo il massimo del gusto si può ottenere solo utilizzando le tracchiulelle, spuntature di maiale, capaci di aggiungere un sapore unico alla prelibatezza del sugo.

Comunque qualunque sia il tipo di carne è importante che non sia tagliato a pezzi piccoli.

Quello che invece proprio non deve essere aggiunto, per evitare la blasfemia, sono l’aglio o il tritato di aglio, cipolla e sedano. E ancor meno il basilico aggiunto a fine cottura.

 

Il profumo del ragù nei vicoli.

 

Attenzione anche alla fiamma durante la cottura. Se molto alta il ragù si rovina. Infatti una cottura così violenta stride con la filosofia del ragù che è fatta di tanta pazienza. Ma filosofia a parte, un’ebollizione aggressiva trasforma in una schifezza anche un sughetto senza pretese.

Il ragù per sua natura richiede una cottura lentissima e lunghissima. Minimo sei ore. Per cui è preferibile che venga preparato il giorno prima, anche perché avrà la possibilità di riposare a lungo prima di essere servito. 

Il ragù, pur non essendo più legato a certi aspetti socio-culturali dell’antica tradizione partenopea, come il caffè, rimane una succulenta realtà della cucina napoletana. E nelle zone più antiche del centro storico, è ancora possibile, attraversando qualche vicolo di domenica mattina, essere “investiti” dal profumo indescrivibile del ragù che cuoce.

Nel Ventennio, i fascisti, con la loro ossessione di italianizzare tutto, ritennero il termine ragù troppo esterofilo e decisero di trasformarlo in un disgustoso “ragutto”.

 

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