Carlo III
Personaggi storici

Carlo III di Borbone rese Napoli grande capitale europea

Carlo III di Borbone ebbe in primo luogo il merito di interrompere oltre due secoli di dominazione straniera a Napoli. E sicuramente è stato tra i sovrani più illuminati del Regno di Napoli. Restituì alla città lo splendore che aveva perso da troppo tempo e governò con grande saggezza.  

Fu molto amato dai napoletani e le tracce che ha lasciato nella storia di Napoli sono molto significative. Per il suo popolo fece tantissimo ma trascurandone di una parte.

Storici e letterati dell’epoca furono molto critici nei suoi confronti. Fra tutti Pietro Colletta e Alexandre Dumas. Ma il loro giudizio era viziato dalla posizione ideologica.

Entrambi erano antiborbonici. Infatti, la Rivoluzione Francese si avvicinava. Prendevano corpo le idee repubblicane e cresceva l’intolleranza per le monarchie assolute.

Al contrario, per i Filoborbonici fu un grandissimo re. Chiaramente entrambi i giudizi sono di parte e come in tutte le dispute la verità sta nel mezzo.

È fuor di dubbio che Carlo III fu un “buon re” e fece tantissimo per la rinascita della città e la modernizzazione del regno. Oltre alle monumentali opere architettoniche che fece costruire e tuttora sono meta di turisti da tutto il mondo.

 

Carlo a Napoli, Carlo III in Spagna

 

Forse non tutti sanno che il regno di Napoli non lo ha mai avuto un re Carlo III di Borbone. Infatti, per discendenza avrebbe dovuto essere Carlo VII ma insediandosi sul trono delle Due Sicilie. Ma decise di dare un taglio netto con il passato.

Napoli dopo secoli di assoggettamento riacquistava la piena indipendenza e lui era il primo sovrano di questo nuovo corso. Quindi, di conseguenza, volle essere semplicemente Carlo.

Solo venticinque anni diventerà Carlo III. Cioè quando lascerà Napoli per sedere sul trono di Spagna. Tuttavia, nell’immaginario collettivo questa sfumatura non esiste. Infatti, strade piazze, statue, monumenti lo ricordano esclusivamente come Carlo III.

Carlo era figlio di Filippo V, re di Spagna, ed Elisabetta Farnese. Uomo tranquillo e bigotto il padre. Donna volitiva e abile la madre, oltre che ambiziosa e agguerrita. Sotto la sua regia Carlo poté far valere le sue indubbie doti e salire sul trono di Napoli e Sicilia.

 

Carlo diventa re delle Due Sicilie

 

Nel 1730 Carlo era signore di Parma e Piacenza ed erede al Granducato di Toscana. Napoli invece era da ventisette anni sotto il dominio austriaco.

Grazie ad una serie di eventi e un accordo con la Francia, all’Infante fu attribuito il Regno delle Due Sicilie. All’epoca nelle mani degli austriaci. Quindi Carlo a capo delle truppe spagnole iniziò la sua discesa alla conquista del regno che gli era stato concesso.

Partì da Firenze e proseguì per Perugia. Attraversò lo Stato della Chiesa senza colpo ferire grazie al consenso del papa Clemente XII.

L’opposizione delle truppe austriache non fu particolarmente dura. Anche perché ostacolata internamente dal popolo napoletano, stanco delle vessazioni che avevano dovuto subire in oltre vent’anni.

Al contrario il popolo attendeva entusiasta il nuovo re che, da parte sua, aveva già fatto pervenire un proclama che annunciava indipendenza e mitigazione del regime fiscale.

 

Carlo III entra a Napoli acclamato dal popolo

 

Le difese austriache si sgretolarono come neve al sole e il 15 maggio 1734 Carlo poté entrare a Napoli acclamato dal popolo che credeva in lui. E anche San Gennaro se ne rallegrò e compì “senza indugio” il miracolo.

Le scene di tripudio non erano una novità all’arrivo di un nuovo “padrone”. Ma erano di convenienza, formali. Il calore con cui fu accolto Carlo III invece era sentito.

La gente credeva in lui e nelle sue promesse. E non rimasse delusa. Infatti, il primo impegno fu onorato quasi subito. Dopo cinque giorni dall’entrata di Carlo a Napoli, Filippo V di Spagna cedette al figlio i suoi diritti sui regni di Napoli e Sicilia. Era l’indipendenza!

 

Don Carlos sposa Maria Amalia di Sassonia

 

Nel 1737 su “consiglio” della madre, sposò Maria Amalia di Sassonia. Elisabetta aveva puntato inizialmente su una delle arciduchesse austriache. Ma fallito questo progetto ritenne la sassone un valido compromesso, nell’ambito delle alleanze.

Carlo era innamorato della moglie e gli fu sempre fedele. Era felice di trascorrere con lei e con i figli il poco tempo che i molteplici impegni gli lasciavano. Maria Amalia non riuscì a sopportare l’allontanamento da Napoli quando il marito salì sul trono di Spagna. Si ammalò e morì, a soli 36 anni.

Carlo rimasto vedovo non si risposò mai più e rifiutò sempre relazioni effimere anche se non aveva raggiunto la “pace dei sensi”. Placava il desiderio con lunghe passeggiate o cavalcate notturne. Un particolare che rende l’idea della fermezza e della ferrea volontà dell’uomo.

La sua più grande passione era la caccia. Lo accompagnò per tutta la vita fino alla fine dei suoi giorni. Ma l’attività venatoria aveva anche un altro scopo. Carlo III era ossessionato dalla paura della follia, che aveva già colpito numerosi membri della famiglia e antenati. Una tara ereditaria che colpì anche un fratello e un figlio.  

 

La paura di Carlo III per la pazzia

 

Egli riteneva che l’unica arma di cui poteva disporre per prevenire questa malattia fosse una intensa attività fisica. Infatti, la sua giornata era un tour de force. Iniziava alle prime luci dell’alba e diventava un vorticoso spostamento tra le sue tenute.

Anche perché era alla continua ricerca di zone dove far sorgere casini di caccia o grandiosi monumenti. Gli Astroni, Licola, Lago Patria, Cardito, Carditello, Fusaro, Maddaloni e Procida, dove aveva acquistato Palazzo d’Avalos. Solo alcuni dei siti prescelti per la caccia e la pesca.

Era pacato e poco elegante nell’abbigliamento. Anzi spesso dimesso e a volte trasandato. Inevitabile, del resto, considerando la sua frenetica attività quotidiana e le tante ore a cavallo.

Solo negli incontri ufficiali con i suoi sudditi si limitava ad indossare qualche abito più pomposo ma senza soffermarsi sui particolari.

Non era brillante però sempre a proprio agio nei rapporti con gli altri e impeccabile nella sua regalità. Non aveva un fisico prestante, nonostante la sua intensa attività fisica. Anzi era magro e anche un po’ incurvato. Ma il suo sguardo era acuto e il viso ispirava simpatia.  

 

Carlo III scaccia dal Regno l’Inquisizione e l’arcivescovo

 

I suoi principi erano incrollabili come la sua onestà. E non c’era ipocrisia nelle sue parole quando affermava di volere la “felicità del suo popolo”. Lo dimostrava nei fatti. O almeno nelle buone intenzioni.

Emblematica la prontezza con la quale nel 1746 rispose ad una disperata richiesta di aiuto dei napoletani.

L’arcivescovo Spinelli stava tentando di introdurre l’Inquisizione nel Regno. Il popolo da sempre ostile a questa autorità, di cui era ben nota la crudeltà, insorse con violenza e chiese l’intervento del re.

Carlo, non ebbe tentennamenti, entrò nella Basilica del Carmine, toccò l’altare con la punta della spada e giurò che mai l’Inquisizione sarebbe entrata nel suo regno. E tanto per essere ancora più chiaro cacciò l’arcivescovo dal suo stato.

 

Carlo era ‘buono’ ma non fesso

 

La sua apparente bonarietà illuse qualcuno. Le donne che gli erano più vicine, vale a dire la madre Elisabetta e la moglie Maria Amalia, lo immaginarono utile strumento nelle loro mani. Ma si sbagliavano.

Carlo non era più lo sprovveduto manovrato dalla madre. Anche se gliene doveva essere grato. Aveva acquisito piena coscienza nei propri mezzi e non consentì più a nessuno di interferire nelle sue decisioni.

Certo aveva un atteggiamento paternalistico nei confronti del suo popolo ed era molto magnanimo. Tuttavia, non bisogna dimenticare che era un sovrano che esercitava un potere assoluto. Quindi non era salutare contrapporsi a lui apertamente. O peggio schierarsi contro di lui.

Carlo III non ammetteva venissero messe in discussione le sue prerogative. Da nessuno! Baroni e feudatari in diverse occasioni si videro privare dei propri beni e incarcerare, ma solo per gravi colpe. E nemmeno i papi e il clero poterono intimorirlo.

 

Anche la Chiesa deve rispettare le regole

 

Carlo III era un uomo molto pio e un fervente cattolico ma questo non gli impedì di difendere i diritti del suo Regno.

La visione di Carlo aveva una semplicità evangelica. Infatti, nel Vangelo secondo Matteo, Gesù dice: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio».

Quindi da un lato la fede con le “giuste” concessioni al clero. Dall’altro la sovranità della Corona che determina in piena autonomia i doveri dei sudditi, semplici cittadini o religiosi.   

Motivo principale del contendere era l’abolizione dei privilegi fiscali concessi agli ecclesiastici e ai beni della Chiesa nel regno delle Due Sicilie.

Clemente XII quando vide in pericolo i benefici di cui godeva la Chiesa nel Regno tentò di intimorire Carlo ma dovette rendersi conto che abbaiare non serviva quindi cercò un utile compromesso.

Il concordato però verrà firmato solo con il suo successore Benedetto XIV. La Chiesa scese a più miti consigli per limitare i danni ai loro benefici. Comunque, Carlo nonostante le concessioni riuscirà ad introitare con questa riforma entrate molto cospicue. Fondamentali per la copertura delle enormi spese dei suoi monumentali progetti.

 

 Il capitolo delle immunità

 

Ma i confitti con la Chiesa non erano solo di natura economica e fiscale. C’era il capitolo “immunità”. Una mano tesa da parte del clero alla delinquenza e un ostacolo per la giustizia reale.

Quando Carlo III salì al trono i peggiori delinquenti potevano sfuggire alle forze dell’ordine e alla giustizia rifugiandosi in ogni proprietà ecclesiastica. Conventi, cappelle, orti, edifici adiacenti alle chiese, compresi i forni e le botteghe. È stato calcolato che nel 1740 erano oltre ventimila i malviventi che nella sola città di Napoli beneficiano di queste immunità.

Il concordato chiuse questo capitolo e concesse il diritto d’asilo solo alle chiese e solo per i reati minori. Escluso l’omicidio, di competenza del tribunale reale.

Carlo ebbe la capacità di scegliere con molta saggezza i suoi collaboratori. Tra questi Bernardo Tanucci. Ex professore dell’Università di Pisa che avrà un ruolo di primo piano in tutta quella che sarà la modernizzazione amministrativa e le grandiose iniziative del sovrano. A vario titolo gestirà il potere a nome del re per circa quarant’anni.

In particolare, dopo la partenza di Carlo III per la Spagna. Infatti, l’erede al trono di Napoli era Ferdinando IV. Un ragazzo di soli otto anni che anche quando raggiungerà la maggiore età e la maturità sarà mai interessato al governo del Regno.

 

L’erede Ferdinando IV: menomale che c’era Tanucci

 

L’esatto opposto del padre, di regalità non ne aveva alcuna. Condivideva con lui la passione per la caccia. Ed era molto abile nelle attività ginniche, buon pescatore ed eccellente spadaccino. Ma la sua vita si svolgeva lontano dalla corte in piena confidenza con la parte più gretta della plebe. Non per niente è diventato per i detrattori il Re Lazzarone.

Quindi in pratica, Tanucci ha guidato il Regno di Napoli fino a quando Maria Carolina, moglie di Ferdinando, riuscì a “farlo fuori”. Ma sempre nella più assoluta fedeltà alla Monarchia e a re Carlo.

Carlo III non amava la guerra e cercò sempre di tenersi fuori da tutti i giochi di potere che determinavano continui e sanguinosi conflitti tra le varie potenze europee.

Ma purtroppo nel 1744 non poté esimersi dal rispondere alla chiamata dei genitori e della Spagna contro gli austriaci e loro alleati inglesi e piemontesi.

 

Parole di ammirazione di Carlo Emanuele III

 

In questa occasione dimostrò che la sua ritrosia non era dovuta a paura o scarso valore militare. Infatti, nella battaglia di Velletri, che lo vide protagonista con le sue truppe insieme a quelle spagnole, ottenne una difficilissima vittoria contro gli austriaci del feldmaresciallo Lobkowitz.

Una impresa che gli valse le parole di ammirazione del re di Sardegna Carlo Emanuele III che, da nemico, ritenne che re Carlo «aveva rivelato una costanza degna del suo sangue e che si era comportato gloriosamente».

Nel 1757 morì il padre, Filippo V e dopo due anni l’erede Ferdinando VI. Carlo diventò re di Spagna ma dovette lasciare il trono di Napoli in ottemperanza ad un trattato che vietava di poter unire i due regni.

Carlo III regnò a Napoli per venticinque anni. Un arco di tempo durante il quale Napoli rifiorì e raggiunse lo splendore delle maggiori capitali europee. Grazie a Bernardo Tanucci riformò e razionalizzò il sistema amministrativo e burocratico.

Carlo III avrebbe voluto delle riforme fiscali molto più avanzate che nei fatti si dimostrarono irrealizzabili. Avrebbero intaccato gli interessi di potenti creditori dello stato.

 

Carlo III degno discendente del Re Sole

 

Intervenne per rivitalizzare l’industria e il commercio che viveva una crisi lunga diversi decenni. Rinnovò i vecchi accordi commerciali e ne instaurò di nuovi con altri paesi, non solo del Mediterraneo. Raggiunse un’intesa persino con l’Impero Ottomano che permise alle navi mercantili di essere meno esposte agli attacchi dei pirati. Non trascurò il rafforzamento dell’esercito e della marina.

Degno discendente del Re Sole, Luigi XIV, ereditò dall’antenato l’amore per la grandiosità e avviò la costruzione di quelle opere monumentali che tuttora possiamo ammirare.

Ma volle confrontarsi con lui sullo stesso terreno. Si affidò a Luigi Vanvitelli per la costruzione della faraonica Reggia di Caserta. L’intenzione era quella di eguagliare lo splendore della reggia di Versailles.

Volendo essere pignoli non vi riuscì perché sono strutturalmente diverse. Ma entrambe straordinarie opere artistiche, ingegneristiche e architettoniche. Insomma, capolavori assoluti. Infatti, sono entrambe Patrimonio dell’Unesco.

 

La grandiosità delle opere monumentali

 

La reggia di Caserta, con il suo parco e i suoi giardini occupa un’area sterminata. Il palazzo ha due facciate di 238 metri e due lati di 186 metri.  Cinque piani. 1200 stanze. 1970 finestre. 34 scale.

Una cascata artificiale con un salto di 80 metri fornisce l’acqua alle vasche che percorrono il lungo viale. La cascata è a sua volta rifornita da una sorgente del Taburno attraverso un condotto di 40 chilometri realizzato dallo stesso Vanvitelli.

Carlo era convinto che la sua magnificenza fosse strettamente correlata allo splendore delle sue residenze, quindi fece costruire due magnifiche regge: quella di Capodimonte e quella di Portici.

Poi commissionò a Ferdinando Fuga il mastodontico Albergo dei Poveri che, nelle intenzioni del re, doveva ospitare ottomila poveri, dando loro da dormire e da mangiare.

Purtroppo, nonostante l’impegno di un battagliero domenicano, padre Gregorio Rocco, la malavita si impadronì molto presto dell’edificio e creò un “ambientino” simile a quello delle Vele di Scampia.

Si deve a Carlo III anche il cosiddetto cimitero delle 366 fosse, una straordinaria opera ingegneristica aldilà della pietà che lo ispirava. Infatti, all’epoca per i poveri esistevano solo le fosse comuni ricavate nelle cave di tufo.

 

Un cimitero per la dignità dei poveri e degli emarginati

 

Questo cimitero contiene 366 ipogei separati tra loro e coperti da una pesante pietra di basalto. Una fossa per ogni giorno dell’anno compreso quello bisestile.

Questo cimitero diede anche ai poveri la possibilità di una “più degna” sepoltura. E ai parenti la possibilità di poter pregare sulla tomba dove, sia pure tra molti altri, giaceva il corpo di un proprio caro.

Nel 1743 in omaggio alla moglie sassone fondò la Real Fabbrica di Capodimonte. Le pregiatissime porcellane prodotte da questa manifattura sono conservate in tutti musei di Napoli, compreso il Mann. Ma anche le porcellane di Capodimonte prodotte in seguito da ditte private sono rimaste sempre pregiate e famose nel mondo.

Nel 1743 fece riprendere gli scavi di Pompei ed Ercolano. Il materiale di valore che veniva ritrovato fu collocato in un museo presso la Reggia di Portici. Nel 1755 fondò la Real Accademia Ercolanense formata dai maggiori esperti della materia per lo studio dei reperti venuti alla luce.

 

Nasce il San Carlo, vanto dei Borboni e di Napoli

 

Nel marzo del 1737 iniziarono i lavori del teatro San Carlo, i cui costi furono ritenuti esorbitanti. Ma i Borboni lo considerarono un loro vanto oltre che della città di Napoli e non si lasciarono scalfire da queste critiche. Del resto, Carlo non aveva torto.

Per la sua magnificenza qualcuno lo ritenne l’ottava meraviglia del mondo. E di fatto rimane il primo teatro d’opera d’Europa (del mondo tra quelli ancora attivi). Fu costruito in appena otto mesi per essere inaugurato il 4 novembre, in occasione del compleanno del re.

Tuttavia, se è indiscutibile l’impegno profuso da Carlo III per la realizzazione di queste opere non si può dire lo stesso degli interventi sul degrado urbano. Avrebbe dovuto fare molto di più per migliorare le condizioni di vita della parte più misera della popolazione. Gente che viveva come animali in tuguri e bassi, senza aria né luce, in grotte, stalle e persino caverne.

 

L’orrore dei fondaci

 

E poi c’erano i fondaci. In origine erano dei grandi depositi merci ma a Napoli dal Seicento in poi vennero adibiti ad abitazioni e con l’aumento demografico e la mancanza di abitazioni vennero sopraelevati per molti piani. Privi delle condizioni igieniche minime ed essenziali, sovraffollati, degradati e malsani.

Un secolo dopo questi fondaci esistevano ancora e lasciarono sconvolta la scrittrice inglese Jessie White Mario che li volle visitare:

«I soffitti crollavano, molte delle stanze totalmente buie, l’una ricevendo luce dall’altra, e questa dalla porta, oppure da buchi, chiamati finestre; ma senza vetri. Ogni fondaco è formato da più camere e “tenendo bene in mente che molte sono occupate da due ed anche tre famiglie, se ne comprende facilmente tutta la luridezza

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Nella foto in alto: Ritratto del re Carlo III di Spagna (1716-1788), vestito con l’abito dell’Ordine di Carlo III, creato dallo stesso monarca nel 1771.

Bibliografia 
Antonio Ghirelli, Storia di Napoli. Giulio Einaudi Editore, 2015. 
Vittorio Gleijeses, Storia di Napoli dalle origini ai giorni nostri. Società editrice napoletana, 1974. 
Alexandre Dumas, I Borboni di Napoli. Mario Miliano editore, 1971

 

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