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Leggende

Spiriti bizzarri e inquietanti leggende napoletane

Spiriti bizzarri, buoni di natura ma facili all’ira. ’A bella Mbriana e ’o Munaciello sono spiriti molto suscettibili. Due protagonisti della tradizione popolare napoletana dell’occulto. Ma non sono i soli. C’è la terribile janara. E altri inquietanti fantasmi che si aggirano in vari luoghi della città.

A bella Mbriana è seriosa ma amorevole, però può trasformarsi in una Furia se si ritiene offesa.

O Munaciello, invece, è uno spiritello bizzarro per antonomasia. È amato e temuto a seconda dei punti di vista e delle situazioni. È un burlone ma guai a farlo incavolare. Diventa dispettoso e cattivo.

La Janara invece è solo cattiveria. È figlia del demonio e la quintessenza della malvagità.

Poi ci sono i fantasmi. Donn’Anna Carafa, Mercede de la Torres, Maria d’Avalos, Maria ’a Rossa, strega di Port’Alba. Vittime di feroci assassinii o raccapriccianti vicende.

 

‘A bella ’Mbriana, lo spirito della casa

 

A bella ’Mbriana è lo spirito della casa. La vera padrona. Coloro che vi abitano sono suoi ospiti.

Quindi bisogna stare bene attenti a mancare di rispetto a quell’abitazione, o addirittura progettare di volerla lasciare. Chi incappa in un errore del genere farà bene ad andar via al più presto.

A bella ’Mbriana non tollera che la sua casa sia detestata o rifiutata. Quando questo succede, si trasforma in uno spirito malefico e per i malcapitati inizia una vita da incubo.

Una serie di sciagure ed eventi negativi li perseguiteranno fino a quando resteranno in quella casa.

Il geco è quell’animaletto simile alle lucertole, ma con una forma più schiacciata. Si muove sulle pareti. A volte anche in quelle di casa. Ma sopravvive molto spesso perché viene visto come la bella ’Mbriana.

Un accostamento strano perché la leggenda vuole che questo spirito rappresenti una ragazza solare, dalle bellissime fattezze e un viso molto dolce.

Il geco è brutto e, a qualcuno, fa una certa impressione vederlo muoversi sulle pareti di casa. Molti lo ritengono molto carino. Infatti, si trovano tanti adesivi anche sulle auto.

I più “cattivi” non esiterebbero un attimo a farlo fuori. Ma prevale il vecchio detto: «non è vero ma ci credo». Quindi, lo prendono con estrema delicatezza, per non fargli male, e si limitano ad allontanarlo il più possibile dalla propria casa. Comunque, vivo e vegeto.

 

La leggenda della bella ’ Mbriana

 

Una leggenda narra che la bella ’ Mbriana era una principessa che aveva perso il senno per una delusione d’amore.

Vagava per i vicoli della città e si fermava in molti “bassi”, cioè in quegli alloggi sul piano stradale, abitati dai più poveri.

Il re, suo padre, che discretamente la faceva seguire, era preoccupato dell’accoglienza che potessero riservargli in queste case. Quindi, fece in modo che le famiglie che accoglievano la principessa, lo considerassero un colpo di fortuna.

Ordinò che dopo il passaggio della principessa ricevessero dei sostanziosi regali anonimi. Una mossa intelligente perché, all’epoca, nei vicoli con i bassi erano molto stretti i rapporti umani. E le notizie correvano veloci.

Diffusasi questa voce, la povera gente faceva di tutto perché la principessa si fermasse proprio nella loro casa. Ben sapendo che a quella visita sarebbe seguito un cospicuo regalo. Magari in generi alimentari, quello che sempre mancava nelle famiglie meno abbienti.  

Da questa favola sarebbe nata la credenza che la bella ’Mbriana è lo spirito della casa. Chi è felice di vivere in quella casa riceve felicità e abbondanza. Al contrario chi la disprezza e vorrebbe lasciarla, sarà costretto a farlo al più presto.

 

’O Munaciello, spirito top player

 

Ma ’o Munaciello, ossia piccolo monaco, è il vero top-player tra gli spiriti bizzarri napoletani. Il più narrato nelle leggende. In realtà anche la storia ha cercato di capire quali fossero le radici di questo personaggio.  

È imprevedibile e dispettoso ma con qualcuno molto generoso. Infatti, i suoi prescelti si ritrovano in casa frequenti e cospicue somme di denaro.

Ma questi fortunati devono essere molto discreti. Non rivelare a nessuno gli eventi. Anche in questo caso la pena consiste in un ribaltamento dei benefici. Rabbia nei confronti di colui che fino a quel momento aveva tratto grandi vantaggi dalla sua amicizia.

Del Munaciello è noto anche il suo carattere “rattuso”. Tradotto in italiano il termine indica un uomo con il vizietto di allungare le mani sulle grazie di donne giovani e belle.

 

Il fantasma sposato con prole

 

Ai giorni nostri una qualsiasi persona di buon senso è ben lontano da credere in queste storie. Ma in passato buona parte della popolazione, quella più semplice, ci credeva davvero. Un passato, tra l’altro che non si ferma ai secoli scorsi ma arriva al dopoguerra.

Però ci sono stati anche casi di voluta credulità. Infatti, è facile capire che il fantasma non c’entra se si conosce colui che lo impersona. Una situazione vantaggiosa poteva spingere ad accettare la natura paranormale.

Come il Pasquale Lojacono di Questi fantasmi che anche di fronte all’evidenza, continua a “voler credere” che quella persona sia un fantasma. Persino dopo che trova la moglie abbracciata in casa con il “fantasma” Alfredo, sposato e con figli.

Né quando la moglie gli domanda come fa a non chiedersi da dove provengono tanti soldi. Dice che la provenienza non gli interessa, l’importante è che lo fanno vivere bene.

Nella commedia di Eduardo De Filippo, il personaggio Lojacono sembra non essere in malafede. Ma crede davvero che quell’uomo sia un fantasma che ha preso a volergli bene?

Sulla genuinità di questa dabbenaggine Freud avrebbe avuto molto da dire. L’inconscio gioca brutti scherzi. Se non vuole accettare una realtà troppo brutta, perché dovrebbe rifiutare una realtà tanto vantaggiosa?

 

Le ipotetiche radici storiche degli spiriti bizzarri

 

Vi sono diverse ipotesi sulla nascita della leggenda del Munaciello. Due in particolare. La prima si colloca intorno alla metà del Quattrocento.

Caterina Frezza era una bella ragazza, figlia di un ricco mercante di stoffe, innamorata di un garzone bello ma squattrinato, Stefano Mariconda. Come in tutte le storie di questa natura il loro amore era fortemente contrastato e come tante finì in tragedia. In particolare, per Stefano che venne assassinato sul luogo dei loro incontri.

Caterinella si ritirò in convento. Tuttavia, in quel luogo sacro, di lì a pochi mesi la ragazza partorì il frutto del suo amore con Stefano.

Nonostante la bellezza dei suoi genitori il bambino non riuscì un granché bene. Talmente ripugnante che le suore al saio, col quale lo vestirono, aggiunsero un cappuccio di notevoli dimensioni.

Quando tornò a Napoli con la madre, questo suo abbigliamento non passò inosservato. Il bambino divenne per tutti lu munaciello. Ma non visse molto e morì per motivi sconosciuti. Dopo la morte gli furono attribuiti dapprima poteri magici e in seguito quelli che sono arrivati ai giorni nostri e lo collocano di diritto tra i principali spiriti bizzarri.

Tuttavia, esiste anche un’altra versione, secondo la quale la sua figura fu associata alla parte cattiva dell’anima umana, al demonio che si nasconde dentro di noi.

Meno poetica la seconda leggenda. Lu Munaciello era proprietario di pozzi e per questo motivo si muoveva attraverso i cunicoli della Napoli sotterranea per fornire l’acqua nei secchi che gli venivano calati. Le vittime dei suoi dispetti altri non sarebbero stati che i morosi. Un sistema per convincere gli scrocconi a mettersi in regola con i pagamenti.

 

Lo spirito demoniaco della Janara

 

In una leggenda beneventana la janara è la più malvagia delle streghe. Era figlia del demonio e forse sacerdotessa di una Diana, che non sembra essere quella della mitologia romana.

Il suo aspetto era mostruoso. Una megera scheletrica, con la pelle flaccida e i capelli sporchi e aggrovigliati. Vederla doveva essere sconvolgente. Tanto più che vagava nei boschi o cavalcava nuda.

La janara esercitava i suoi malefici all’interno delle case. Era invisibile e vi entrava come il vento. Quindi poteva muoversi senza essere vista. La sua presenza si percepiva sentendosi accarezzare il viso da una mano gelida.

Si dice anche che tentasse di soffocare i giovani, durante il sonno, distendendosi a corpo morto sul loro petto e togliendo loro il respiro. E che le sue vittime predilette fossero i bambini.

L’unica difesa, quindi, era impedire loro di entrare in casa. Diversi sistemi erano ben conosciuti dai contadini. Il più diffuso era quello del sale e della scopa di saggina davanti agli ingressi. Sia porte che finestre.

 

Le barriere per difendersi dalle janare

 

La janara poteva entrare solo dopo aver contato i grani di sale e i ramoscelli di miglio. Operazione troppo lunga e complessa per evitare che sopraggiungesse l’alba e spuntasse il Sole, suo mortale nemico. Svaniva così il tentativo di penetrare in casa ed era costretta ad una fuga precipitosa.

Purtroppo, per le stalle non esistevano le stesse difese. La strega entrava e si nascondeva. Rimasta sola di notte rubava una giumenta, per cavalcarla in una folle corsa fino alle prime luci dell’alba. Quindi la riportava lasciando un inconfondibile segno distintivo: delle treccine con la criniera dell’animale. Spesso la povera bestia non sopravviveva allo sforzo immane della notte.

Esistevano dei metodi e delle formule per renderle innocue per sempre. Ma erano molto difficili da mettere in pratica.

Le janare si riunivano sotto un albero di noce sulle sponde del fiume Sabato, da cui prendeva nome il rituale: sabba. L’albero del noce era prescelto per la conformazione simile al cervello. Veneravano un caprone perché rappresentava il demonio, loro padre.

 

Lo spirito disperato di Maria d’Avalos

 

Si dice che nelle notti senza Luna una signora, descritta in vari modi, compare in piazza San Domenico Maggiore. Si sposta disperatamente nello spazio tra Palazzo di Sangro e l’obelisco piramidale invocando il nome dell’amante.

È lo spirito di Maria d’Avalos, uccisa insieme al giovane Fabrizio Carafa, con inaudita crudeltà dal marito. Il crimine fu commesso nella notte tra il 16 e 17 ottobre 1590.

Il marito, principe di Venosa Carlo Gesualdo, era al corrente della tresca. Ma gli interessava poco o niente. Si era trattato di un matrimonio di reciproca convenienza e ognuno stava per i fatti suoi. Il principe, un madrigalista di notevole bravura, all’epoca dei fatti era più interessato alla musica che ai vizietti della moglie.

Del resto, la tresca era nota a tutti. Oggi avrebbe fatto la gioia dei giornali e dei talk show di gossip. Ma ci sono dei momenti in cui anche il più disinteressato dei cornuti è costretto a reagire. E come insegna l’Otello scespiriano, il geloso istigato diventa una belva assetata di sangue.

Jago della situazione in questo caso fu lo zio di Gesualdo, don Giulio. Non era un moralista ma uno sporcaccione che aveva tentato, senza fortuna, di sedurre la giovane e bellissima Maria.

 

Il tranello del principe cornuto

 

Punto sull’orgoglio e guidato dal suo spirito di vendetta, tirò in ballo l’onore della famiglia e armò la mano di Carlo.

Il principe elaborò il piano classico dei mariti che vogliono cogliere sul fatto la moglie fedifraga.

Finse di stare qualche giorno fuori per una battuta di caccia. Appresa la notizia Maria non perse tempo. Si fece raggiungere da Fabrizio nella propria alcova, a palazzo Sangro di San Severo. Storico edificio di piazza San Domenico Maggiore.

Ma era caduta nella trappola. Carlo Gesualdo, non si era mosso dal palazzo. Nascosto con i suoi sgherri attese il momento opportuno e fece scattare il piano criminale.

Spalancò la porta e si avventò sugli amanti. Insieme ai suoi scagnozzi infierì con decine di coltellate.

I corpi nudi e martoriati vennero esposti il giorno successivo sulle scale davanti al portone spalancato. Maria completamente sventrata.

Si dice che nell’ala del palazzo dove venne consumato l’orrendo crimine, si udivano ogni notte i lamenti strazianti di Maria. E si udirono fino al 1889, quando crollò quell’ala del palazzo.

 

Gli spiriti di Donn’Anna Carafa e Mercede de las Torres

 

Una leggenda narra di fantasmi nel palazzo Donn’Anna di Posillipo. Però non tutti sono d’accordo sulla loro identità terrena. Per alcuni è lo spettro della contessa Anna Carafa, Donn’Anna appunto. Secondo altri è donna Mercede de la Torres, rivale in amore della contessa e da questa fatta imprigionare. E forse fatta murare viva in una stanza del palazzo.

C’è persino chi ritiene che sia lo spirito di Giovanna II d’Angiò, una sorta di mantide religiosa, nota per i suoi eccessi lussuriosi. Ipotesi suggestiva ma priva di fondamento.

Secondo una credenza popolare, la regina era solita scegliere i suoi amanti tra i pescatori di Santa Lucia. Quelli più belli e aitanti li avrebbe usati nella sua alcova di Palazzo Donn’Anna.

Una notte d’amore con la regina era un’esperienza unica per la sua raffinatezza nell’arte amatoria. Un’esperienza che purtroppo i fortunati non avrebbero mai potuto raccontare. Quella era la loro ultima notte di vita.

Attraverso una botola venivano scaraventati in un pozzo profondo dove ad attenderli, vivi o morti, c’era un enorme e vorace coccodrillo. Però l’edificio teatro di questi eventi non era Palazzo Donn’Anna, bensì il Maschio Angioino.

E se ci fossero ancora dei dubbi, farebbero fede le date. Giovanna è morta nel 1435. La costruzione del Palazzo è iniziata nel 1642.

 

Mostruoso delitto di gelosia

 

Palazzo Donn’Anna invece fa da sfondo al contrasto tra due rivali in amore. Anna Carafa e Mercede de la Torres.

La padrona di casa, l’ambiziosa principessa Anna Carafa era la moglie del viceré di Napoli, Ramiro de Guzmán. Donna Mercedes de la Torre era la nipote di Anna, ragazza di straordinaria bellezza. Conteso oggetto del desiderio era Gaetano di Casapesenna, innamorato della nipote ma bramato dalla focosa zia.

La scintilla che causò la tragedia partì da uno spettacolo teatrale. Nella commedia i due giovani interpretavano un cavaliere e la sua schiava, Mirza. Si attennero fedelmente al copione. Poi di colpo si lasciarono andare a troppa passione.

Si scambiarono un lungo bacio, tanto realistico da guadagnarsi un’ovazione dai presenti. Entusiasmo non condiviso dalla principessa, furiosa sia per la gelosia che per la sfacciata provocazione.

Da quel momento i rapporti già poco affettuosi tra zia e nipote si trasformarono in una guerra aperta. Che si concluse, improvvisamente, con la misteriosa scomparsa di donna Mercede.

La viceregina disse che per un richiamo irresistibile del Signore, la ragazza si era ritirata in un convento di clausura. Ma senza precisare dove.

Il cavaliere di Casapesenna, innamoratissimo e disperato, spese tutte le sue forze nelle ricerche. Cercò per anni ma di donna Mercede non se ne seppe più nulla.

Non è da malpensanti supporre che la cella di clausura gliela abbia regalata donn’Anna stessa, rinchiudendola o murandola a vita.

Per la cronaca però bisogna dire che, se esiste, la giustizia divina punì con la massima durezza la principessa.  La sua vita fu costellata di sciagure fino ad una morte orribile

 

Maria ’a Rossa, strega di Port’alba

 

Una delle leggende più inquietanti è sicuramente quella di Maria la Rossa, divenuta in seguito ad una incredibile sventura la strega di Port’Alba.

Port’Alba dei giorni nostri è famosa per le sue librerie, le bancarelle di libri usati e la più antica  pizzeria del mondo. Ma fino ai primi anni del Seicento era piena di verde e ricca di alberi di sciuscelle.

Ma si trovava fuori le mura, e per raggiungere la città, attraverso la porta di accesso più vicina, bisognava fare un lungo giro.

Sicuramente i cittadini si saranno rivolti innumerevoli volte alle autorità per ottenere una porta in quella zona. Ma allora, come oggi, difficilmente le autorità sentono quello che non interessa loro.

Di conseguenza gli abitanti del largo Sciuscelle, visti vani i propri appelli, si arrangiarono da soli. Praticarono un foro nella mastodontica parete per spuntare in città. Anche se non nel punto dove adesso sorge la porta.

Il viceré, che era sordo alle richieste dei cittadini, era molto attento al pericolo che rappresentava quel buco per la difesa della città. Forse con giusta ragione. E lo faceva chiudere di nuovo.

Ma in un continuo braccio di ferro, i cittadini interessati se ne fregavano delle preoccupazioni del viceré e rifacevano il pertuso.

Questa tiritera sarebbe andata avanti per chissà quanto tempo se non fosse intervenuto il principe di Sansevero, perorando la causa di quei poveretti.

 

Il viceré fa costruire la porta ma con i soldi dei napoletani

 

Il viceré Antonio Alvarez di Toledo, duca d’Alba acconsentì alla realizzazione della porta ad una condizione: non voleva rimetterci nemmeno una lira. I napoletani furono d’accordo e pagarono di tasca propria la porta che oggi porta il nome del viceré spilorcio.

Inizialmente però prese il nome di “Porta Sciuscella” per la presenza degli alberi omonimi. Le sciuscelle, come vengono definite in dialetto sono le carrube. I frutti sono usati come alimento per asini e cavalli. I semi nella preparazione di medicinali. La farina nell’industria dolciaria.

La porta costruita nel 1625 fu ristrutturata nel 1797 per volere di Ferdinando IV. In cima venne posta la statua di San Gaetano di Thiene e diventò Porta Reale. Infine prese il nome attuale.

Questo lungo preambolo per presentare il teatro che fa da sfondo a questa triste vicenda. La protagonista della leggenda è “Maria ’a Rossa”.

La stessa che, come un’ombra, nelle notti di luna nera si aggira in quel tratto di strada. Tra bancarelle, librerie e la pizzeria, che all’epoca sarebbe stata la sua abitazione. E ripete di continuo una maledizione che pronunciò prima di spirare.

Maria la rossa era una bellissima ragazza dai capelli color fuoco. Tutti gli uomini che la conoscevano erano innamorati di lei. Ma fu Michele, un conciatore di pelli, a rubare il cuore della deliziosa ragazza.

 

Il diabolico incantesimo della fontanina

 

Un amore travolgente che li condusse all’altare in sei mesi. Dopo il matrimonio frementi di passione pregustavano il piacere delle ore che sarebbero seguite. Proseguivano spediti verso la loro casa, situata oltre Porta sciuscelle.

Arrivando dall’attuale piazza Dante, prima della porta c’era una fontanina. Alla sua altezza Michele si piantò in terra senza riuscire a muovere un passo. Il ragazzo si disperava e terrorizzato cercava di staccarsi dal suolo.

L’agitazione di Maria non lo aiutava ma aumentava la sua angoscia. E tanto meno lo aiutavano i tanti curiosi che si accalcavano per osservare l’incredibile evento.

Comunque, era chiaro che questo matrimonio non era nato sotto i migliori auspici. Anzi c’era l’opposizione di una forza diabolica. Quindi dopo qualche giorno Maria si rassegnò e se ne tornò a casa.

Solo allora Michele si sentì libero di muovere le gambe. E le mosse molto velocemente verso la direzione opposta a quella della rossa. Femme fatal ma in senso troppo letterale.

Maria, come è normale che sia, non riusciva a capacitarsi di questa sventura. Cercava di trovare il motivo di una punizione così tremenda. Ma più cercava di capire più aumentava la sua pena.

Fino a quando non ebbe più la forza di ragionare in maniera lucida. Cominciò a lasciarsi andare. Non mangiava e non curava più la sua persona. Divenne magrissima e quando uscì di casa, dopo molto tempo, aveva i lineamenti di una vecchia. Brutta, con i lunghi capelli arruffati e ingrigiti, vestita si stracci e un’espressione truce.    

 

L’anatema della ‘strega’ morente

 

Probabilmente una donna che con quello che gli era successo non ci stava più con la testa. Però la gente spesso si sofferma sull’aspetto esteriore delle persone e trova molto più facile coalizzarsi contro i diversi.

Solo che in un’epoca di superstizione e Inquisizione, il giudizio delle malelingue era l’ultimo delle preoccupazioni. L’ignoranza favorì la circolazione di voci su presunte pratiche di magia nera esercitate dalla donna. Incontri con il demonio, fatture e rituali per provocare la morte di qualcuno.

Bastava molto meno per finire nelle grinfie del Sant’Uffizio. E ovviamente, con quel carico di accuse, Maria era un’imputata senza speranze di sopravvivenza.

Infatti, dopo il processo venne messa in una gabbia e appesa sotto Port’Alba ad un gancio, ancora visibile. In quell’angusto spazio si spense tra atroci sofferenze la sua vita. Ma prima di spirare lanciò l’anatema che ripete anche il fantasma che vaga nelle notti scure: «La pagherete. Tutti. Voi, i vostri figli, i vostri nipoti, tutti. La pagherete».

Ma la vicenda non era ancora conclusa. Gli inquisitori non avevano rimosso la gabbia dopo la morte di Maria. Doveva essere un monito per tutto il popolo. Ma dovettero toglierla in tutta fretta quando la salma invece di decomporsi si pietrificò.

Foto: Allie Caulfield

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