Macchroni al sugo
Leggende

La leggenda dei maccheroni, tra magia e perfidia

Secondo una leggenda raccontata da Matilde Serao, i maccheroni nascono dalla fantastica alchimia di un mago e vengono sfruttati e resi celebri da una diabolica popolana.

Era il 1220 e a Napoli regnava Federico II di Svevia. Il vico dei Cortellari era un’angusta stradina nel centro più antico della città. Un sinistro angiporto dove quasi tutte le case erano mal curate, e l’aspetto poco rassicurante.

Ma ce n’era una in particolare che faceva rabbrividire i passanti. Una casa alta e stretta dall’aspetto tetro, davanti alla quale i passanti si affrettavano ad allontanarsi velocemente, ricorrendo nel contempo ad ogni forma di scongiuro.

Il palazzo era già di per sé molto temuto in quanto covo di gente malfamata e criminali incalliti ma il terrore dei passanti era un mago che abitava all’ultimo piano dell’edificio: Chico.

Chico, in effetti, era solo un personaggio misterioso che evitava qualsiasi forma di contatto con il prossimo. Un comportamento però sufficiente a creargli un alone di oscuro mistero.

Raramente spalancava le imposte e ancor più raramente usciva di casa. Durante queste sporadiche passeggiate l’unica nota, piuttosto, inquietante era la sua figura.

Alto, magro, dinoccolato, vestiva completamente di nero, dalla testa ai piedi.

 

I macabri esperimenti del mago Chico

 

La curiosità delle donne della zona non riusciva a penetrare il fitto mistero che lo avvolgeva. Provarono senza successo anche con il terzo grado al servo.

Dalle poche indiscrezioni che poterono conoscere, dedussero che si trattava di un esperto di magia nera, che in una stanzetta con la lampadina sempre accesa leggeva dei grossi volumi di manoscritti.

Il suo focolare era pieno di alambicchi, fornelli a un’infinità di oggetti utili alla preparazione di filtri magici e strumenti che sembravano destinati ad usi ripugnanti.   

Si diceva che di notte dal suo terrazzino scuoteva le mani lasciando cadere una polvere bianca per infestare l’aria.

Nel tinello, invece, si lavava le mani macchiate una strana sostanza rossa e sul pavimento si creavano delle grosse pozzanghere di questo liquido che poteva sembrare sangue. 

Qualcuno sosteneva che Chico, su un tavolo di marmo bianco, affettava con affilati e sottili coltelli qualcosa di delicato, magari le membra di una bambino.

In realtà Chico era solo un uomo ricco che negli anni aveva dilapidato la sua fortuna. Gli era rimasta soltanto la sua notevole cultura filosofica che aveva appreso dalla lettura degli scrittori antichi.

 

Jovannella, astuta e subdola vicina

 

Rimasto solo e sentendosi inutile aveva deciso di ideare qualcosa di memorabile che sarebbe stata apprezzata da tutti gli uomini.

Cercò di ricordare qualcuno dei piaceri che aveva maggiormente apprezzato durante gli anni dei suoi godimenti. Pensò di realizzare un prodotto gastronomico senza precedenti e dopo anni di fallimenti riuscì nel suo scopo.

Ma il destino gli stava preparando un brutto scherzo. Una sua vicina, Jovannella di Canzo, famosa per la sua astuzia e cattiveria, spiando metodicamente Chico, al fine malignare, si rese conto che il mago aveva creato qualcosa di straordinario.

Era una deliziosa ricetta segreta. Jovannella riuscì a carpirne il segreto e al primo assaggio si rese conto della fortuna che poteva trarne.

Il marito, Giacomo, era uno sguattero delle cucine reali e, nonostante questi fosse restio, lo convinse a parlare con il cuoco per fare in modo che lei potesse cucinare quella ricetta per il re.

Il piano andò a buon fine. Infatti, Federico incuriosito delle parole che magnificavano quella squisitezza concesse alla donna di utilizzare le cucine reali.

Dopo la lavorazione dell’impasto di farina, la donna lo stese e ne ricavò tanti piccoli quadrati, che avvolse su una canna sottile, li sfilò e ne ottenne tanti piccoli cilindretti di pasta forata.

Dopo averli fatti asciugare, li mise a soffriggere in un tegame di coccio con strutto, cipolla tritata, aglio e un po’ di sedano e carotine.

Aggiunse e fece rosolare un pezzo di carne e aggiunse vino rosso, lo fece evaporare e ricoprì il tutto con un bel po’ di pomodori rossi passati al setaccio. Coprì il tegame e, come avrebbe consigliato Eduardo per il ragù qualche secolo dopo, lasciò “pappuliare” il tutto per tre ore.

 

I maccheroni conquistano Federico II

 

All’ora di pranzo, Jovannella preparò una pentola d’acqua bollente e vi rovesciò i cannelli di pasta ovvero i maccheroni.

Quando la pasta fu cotta al punto giusto, la scolò e la pose in una zuppiera di maiolica. La condì a strati alternando una cucchiaiata di salsa e una di parmigiano grattugiato.

Il re rimase entusiasta e le chiese come avesse potuto immaginare un così perfetto connubio. Jovannella non ebbe esitazioni e rispose che il segreto dei maccheroni gli era stata rivelato, in sogno, da un angelo.

Il re fu molto generoso con lei ma questo fu solo l’inizio della sua fortuna. Infatti la notizia della bontà dei maccheroni spinse nobili, dignitari e ricchi borghesi a mandare da lei, insieme a cospicui ringraziamenti in denaro, i propri cuochi per apprendere la ricetta.

Nel giro di sei mesi tutta Napoli mangiava i maccheroni e Jovannella era diventata ricchissima.

Intanto, Chico continuava a perfezionare la sua ricetta, che ormai era sulle tavole di tutti i napoletani.

Se ne accorse anche lui passeggiando per il centro storico quando sentì il profumo di quella che era la sua ricetta.

Non aveva dubbi ma ne ebbe la conferma interrogando una donna che stava cucinando la sua specialità. Il suo racconto gli fece capire con certezza quello che era successo.

In preda alla disperazione ritornò nella sua casa e distrusse ogni cosa, prima di sparire ignorato da tutti.

Anche per Jovannella, però, come per tutti, quindi anche per quelli che hanno condotto una vita felice e agiata arrivò la sua ora. Morì. Ma dopo una lunga agonia, urlando come una dannata cercando di espiare le colpe derivate dalla sua malvagità.

Questa che in effetti sembra più una fiaba che un racconto della tradizione popolare napoletana è scaturita dalla fantasia di Matilde Serao nelle sue Leggende Napoletane.

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