Compagnia Raffaele Viviani
Personaggi storici

Raffaele Viviani, ritratto di uno scugnizzo drammaturgo

Tra gli interessi primari di Raffaele Viviani di sicuro non c’era la politica. Ma certamente non nutrì sentimenti di gratitudine per Mussolini. Infatti, il regime gli stroncò una carriera in continua ascesa, capace di travalicare i confini nazionali, nonostante il napoletano strettissimo delle sue opere.

Viviani, all’anagrafe Viviano, nacque a Castellammare di Stabia il 10 gennaio 1888. Artista poliedrico come pochi fu attore, capocomico, drammaturgo, poeta, autore di memorabili canzoni come ‘A rumba de scugnizzi e So’ “Bammenella” ‘e copp’ ‘e Quartiere.

La famiglia di Raffaele era povera e numerosa. Il padre, modesto impresario, dopo innumerevoli vicissitudini e rovesci economici riuscì a riprendersi e costruì il teatro Masaniello e altri minori.  A quattro anni, il piccolo Papiluccio, come veniva familiarmente chiamato, vestito da pupo e con il frac, cantava in uno spettacolo di marionette nel teatro conosciuto come Nuovo San Carlino.

Da subito mostrò le sue notevoli qualità sceniche e a sei anni recitò nel dramma Masaniello. La morte prematura padre, quando lui aveva appena dodici anni, aggravò ulteriormente le già precarie condizioni della famiglia. Raffaele dovette provvedere lui alla madre e ai fratelli. Questa enorme responsabilità lo portò a trascorrere buona parte della giornata in strada ma non solo per guadagnare.

 

‘Guaglione’, la poesia che racconta l’infanzia di Raffaele Viviani

 

Nella poesia Guaglione fa uno schizzo della sua infanzia trascorsa in questi ambienti. Scugnizzo tra gli scugnizzi, viveva, giocava e apprendeva dalla strada. A 12-13 anni i suoi compagni erano cresciuti di altezza ma non di cervello. A malapena frequentavano la scuola e il più istruito “a stento sapeva firmare”.

Poi la maturazione: donne, carte, liti cruente e carcere. Carcere che spesso diventava un luogo abituale per molti di loro. Papiluccio di quelle esperienze raccolse solo l’impronta che trasmetterà magistralmente nelle sue opere. Ma si fermò prima del baratro.

Si procurò un sillabario e si disse: «Raffaele, mettici impegno! e prese a correre con A, E, I, O, U». Questi anni risulteranno fondamentali nella sua formazione artistica. Vivere da scugnizzo lo portò a conoscere la realtà dei vicoli e le difficoltà della gente che li abitava.

Era analfabeta ma cosciente delle sue capacità, per cui abbandonata la vita da scapestrato si dedicò con ferma determinazione allo studio come autodidatta. E riuscì a raggiungere la formazione necessaria per portare a compimento i suoi sogni. Ma si rese anche conto che per emergere bisognava essere autori oltre che esecutori.

Cominciò quindi a scriversi da solo anche i testi delle sue canzoni. Il problema era musicarle. Non sapeva suonare alcuno strumento né leggere uno spartito. Non si perse d’animo. Fischiettava il motivo che aveva in testa al maestro Ennio Cannio, che lo suonava al piano e lo trascriveva sullo spartito. 

 

L’ironia amara delle macchiette di Raffaele Viviani

 

Iniziò lavorando nei cafè chantant come macchiettista e mettendo a frutto tutta l’esperienza che aveva maturato nei vicoli, creò una serie di pittoreschi personaggi. Seguirono numerose esperienze nel mondo del varietà, che all’epoca imperava e dopo una tournée nel Nord Italia tornò a Napoli.

Scritturato al Politeama Petrella, interpretò per la prima volta ’O scugnizzo. Un trionfo, definito dalla stampa un prodigio di verità. Scritto da Giovanni Capurro, uno degli autori di ‘O sole mio, e Francesco Buongiovanni, era stato fino a quel momento sempre interpretato con notevole successo dal comico Peppino Villani. Ma Viviani lo trasformò e il pubblico me fu entusiasta. ’O scugnizzo divenne per sempre il suo cavallo d battaglia.

La sua fama travalicò i confini nazionali dopo il travolgente successo raccolto ovunque in Italia. Fondò la compagnia Tournée Viviani con la sorella Luisella, che da sempre era stata al suo fianco. E partirono in giro per il mondo. Da Malta a Parigi, dal Libano all’Ungheria e in Sud America: Argentina, Brasile, Uruguay ecc.

Dopo la disfatta di Caporetto furono vietati tutti spettacoli di varietà. Fu ritenuto inopportuno, per rispetto dei tanti militari morti, feriti e mutilati, sbellicarsi dalle risate. Poteva essere un colpo mortale per il futuro artistico di Viviani, invece fu la sua fortuna, E anche la nostra perché non avremmo quei capolavori che ci ha lasciato. In realtà non fu colto del tutto impreparato dall’imprevedibile evento.

 

Dopo Caporetto Raffaele Viviani sceglie la prosa

 

Già da tempo gli frullava nella testa il pensiero si passare alla prosa. Lo tratteneva la saggezza popolare di: «Non lasciare il sicuro per l’insicuro» o «Non lasciare la via vecchia per la nuova». Ma ormai il destino, o che dir si voglia, aveva deciso per lui.

Cominciò con la scrittura di atti unici. Ed esordì sulle scene del teatro Umberto di Napoli, nel dicembre del 1917, con la commedia in versi, prosa e musica: ’O vico.  Con il successo di questo nuovo corso fondò una sua compagnia, per dar vita in seguito alla stabile dell’Umberto, che lui stesso diresse fino al 1945. In questo periodo Raffaele scrive alcune delle sue più belle e opere drammatiche ZingariPiscatureCirco SguegliaFatto ‘e cronacaMorte di CarnevaleGuappo ‘e cartonePadroni di barche ecc.

 

Il povero diavolo contrapposto al superuomo

 

Viviani nelle sue opere presentava un’Italia che era l’opposto di quella trionfante che il regime voleva mostrare. Ai “superuomini” fascisti facevano da contraltare i poveri diavoli, del suo teatro, che a stento riuscivano a tirare avanti, con la fame e nella miseria. Infatti i suoi personaggi nonostante la loro comicità, erano espressione di un crudo realismo. A volte intrisi di una tragica ironia.

Personaggi veri a cui può dare vita solo chi è li ha conosciuti realmente. Poveracci, zingari, guappi, pescatori, vetturini, frequentatori e lavoratori del porto. Espressione del popolo minuto, culturalmente e socialmente poco evoluto, quando non dei bassifondi malfamati.  

Gli ambienti che facevano da sfondo erano bettole, locande, caffetterie, angiporti, lo scalo marittimo e i vicoli proletari delle aree più abbandonate della città, dove l’indigenza regnava sovrana. Ma senza questi personaggi parleremmo oggi dell’unicità del teatro di Viviani?

La sua grandezza sta anche nelle testimonianze provocatorie. Nelle sue commedie non c’è spazio per i buoni sentimenti. Né per quella che per noi è l’ossessiva politically correct

Nella seconda metà degli anni Trenta però il successo di Viviani scemò in maniera inversamente proporzionale all’ascesa del fascismo ormai all’apice del suo potere. L’arroganza e la presunzione del regime vollero dettare anche le nuove regole linguistiche.

 

 Il codice linguistico del fascismo

 

Si avviò l’italianizzazione, cioè la messa al bando di tutte le parole straniere. Le violazioni anche minime non furono tollerate. Lievi infrazioni, anche frutto di subdole delazioni, furono punite con pestaggi e purghe. Quelle ritenute più gravi prevedevano pene detentive. Persino il latino era ritenuto lingua straniera. Infatti, lo stesso Mussolini dovette trasformare il pomposo Dux in Duce.

I dialetti non furono soggetti allo stesso trattamento, ma comunque boicottati. Le opere che fino a quel momento avevano avuto rilievo nazionale diventarono di nicchia. E insieme ai propri autori diventarono di serie B. Un destino che toccò, tra gli altri, anche Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.

Però, per quanto questo sia inconfutabile bisogna dire che non fu il vero ostacolo all’escalation trionfale di Viviani. Infatti, se è vero che la censura cominciò ad operare pesanti tagli sui copioni, snaturandoli, è anche vero che stava crescendo nel paese una classe borghese benpensante e sempre più vicina al pensiero fascista.  

 

Cade la dittatura ma il seme della cultura resta

 

La fine della guerra e la caduta del regime non furono sufficienti a riportare in auge il teatro di Viviani perché il retaggio di un Ventennio come quello trascorso non può svanire di colpo. E anche se improvvisamente tutti si scoprirono antifascisti, di fatto le classi socialmente più elevate continuarono a mantenere la vecchia e consolidata forma mentale acquisita. Avendo, magari senza volerlo, assorbito i valori della propaganda fascista, trovavano imbarazzante l’esposizione di una realtà miserabile che si voleva nascondere.  

Durante la Pentecoste del ’45 Viviani recitò per l’ultima volta ’O vico. Ma ancora non interruppe la sua produzione artistica affiancato dal figlio Vittorio.

 

Viviani nello schizzo di Domenico Rea

 

Domenico Rea, nel 1991, sul Venerdì di Repubblica fornisce una simpatica descrizione fisica dell’ormai anziano Papiluccio. «…Io vidi una sola volta Viviani a passeggio intorno alla sua casa di Corso Vittorio Emanuele II. Era alto, secco, legnoso, pelle e ossa, il volto asciutto, il naso camuso, la bocca svasata, gli occhi come un po’ strabici, i capelli ricciuti e lanosi. Era elegantissimo in papillon, fazzoletto nel taschino e scarpe bianche e nere. Camminava con aria guappesca, ma era lo stesso un triste e nobile signore plebeo». In un certo senso personaggio simile a quelli che adorava tratteggiare.

 

Epilogo finale e testamento dubitativo

 

Il 22 marzo del 1950, all’età di 62 anni, morì dopo aver sofferto a lungo per una malattia incurabile. Il suo ultimo desiderio fu di guardare la città dalla sua finestra: «Arapite, faciteme vede’ Napule». Nel 1960 fu traslato nel Quadrato degli uomini illustri presso il cimitero di Poggioreale a Napoli.

Con il sonetto: Si overo more ‘o cuorpo sulamente, Raffaele Viviani lascia quello che può essere considerato il suo testamento. Si chiede se veramente come sostiene qualcuno esiste la reincarnazione e in questo caso chi sarà e chi è stato. Tuttavia, più realisticamente preferisce non perdere tempo con questi ragionamenti filosofici. A lui basta sapere che è vissuto. Nel bene o nel male. Non gli interessa perché anche se dopo non sarà più nulla gli basta sapere che questa vita l’ha vissuta.

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Nella foto di Giuliano Longone: La compagnia di Raffaele Viviani nel 1933.

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