Giacomo Leopardi
Personaggi storici

Giacomo Leopardi, luci e ombre del soggiorno a Napoli

Il rapporto di Giacomo Leopardi con la città di Napoli non fu semplice nonostante un iniziale entusiastico approccio. Infatti quando il poeta arriva in città, insieme all’amico Antonio Ranieri, le sue aspettative sono molto alte. Era il 3 ottobre del 1833.

È infervorato all’idea dei vantaggi che può ricavarne anche sotto il profilo professionale. All’epoca Napoli era la quarta città d’Europa per numero di abitanti dopo Londra, Parigi e San Pietroburgo. Potenzialmente un centro artistico e letterario di prim’ordine.

Poi c’è la causa principale della sua venuta a Napoli: la salute. È molto compromessa. Tra gli altri malanni ha la tisi e gravi problemi alla vista.

Manifesta il proprio entusiasmo proprio nella prima lettera inviata al padre Monaldo dopo l’arrivo all’ombra del Vesuvio. Ma non passa molto e Giacomo comincia a vedere anche i lati negativi di una città complessa come quella partenopea.

Tuttavia sono ancora tanti gli elementi che lo attraggono. Le manifestazioni rumorose, folcloriche, rassegnate, appassionate, a volte drammatiche di un popolo abituato a sopravvivere in una realtà complicata.

Il carattere dei napoletani, esatto opposto del suo, lo incuriosisce e le lunghe passeggiate da via Santa Teresa degli Scalzi, attraversando via Toledo a Santa Lucia sono per lui tra i momenti più affascinanti del suo soggiorno napoletano. Tre anni e sette mesi che sono anche gli ultimi della breve vita di Giacomo Leopardi.

 

Giacomo Leopardi dà i numeri da giocare al lotto

 

La popolazione più “verace” dei vicoli napoletani con cui viene in contatto, pur non manifestando segni di ostilità nei suoi confronti, non lo tiene in grande considerazione.

Il suo aspetto fisico e l’abbigliamento trasandato, con un liso soprabito turchino, non rende certo l’idea di quel gigante che conosciamo noi.

È anche gobbo, una deformazione che per i napoletani è sinonimo di portafortuna. E secondo una vecchia e poco edificante abitudine, per beneficiare appieno di questa fortuna bisogna toccare la gobbaQuindi non sono pochi quelli che lo toccano e gli chiedono i numeri da giocare al lotto.

Il poeta non se la prende più di tanto e regala i numeri richiesti, che di sicuro solo il caso potrebbe rendere vincenti. Però viene contagiato lui stesso dalla passione per il gioco del lotto.

Comincia a studiare le formule e le combinazioni per riuscire a calcolare matematicamente i numeri vincenti. Tuttavia, non avendo in questi calcoli le stesse doti che aveva nella poesia non si arricchì mai. Ma neanche si ridusse in miseria, perché quelle erano già le sue condizioni di vita.

 

Invidiato e snobbato dall’intellighenzia locale

 

Comunque, con la plebe dei vicoli viveva bene anche se era inadeguato a quel mondo fatto di furbizie e spesso veniva deriso. Quelli che invece lo odiavano ferocemente erano proprio quegli intellettuali su cui aveva riposto tante speranze di crescita culturale.

Il luogo d’incontro del fior fiore dell’intellighenzia napoletana era il Caffè Trinacria in via Taverna Penta, lungo via Toledo. Leopardi si reca in questo locale da solo, suscitando il risentimento dell’amico Ranieri.

Spera di poter essere accettato in quello che di fatto è un circolo chiuso e ottuso. Letterati e artisti non lo sopportano e ben presto lo emarginano.

In questo mancato rapporto di “amorosi sensi” di certo non gioca un ruolo favorevole il carattere del poeta di Recanati. Giacomo Leopardi è molto schivo e ai loro occhi, non certo benevoli, appare altero e presuntuoso.

In concreto però sono, più che altro, invidiosi del suo talento e, forse inconsciamente, dubitano di potersi confrontare con lui, personaggio immenso nonostante il suo aspetto meschino.

E non lo risparmiano neanche quando lo vedono dietro un tavolino del Caffè Due Sicilie, in piazza Carità, cuore pulsante della vita napoletana di allora.

 

Beffeggiato dagli intellettualoidi come “ranavuottolo”

 

Lo beffeggiano con l’appellativo di “ranavuottolo”, cioè di ranocchio. Questo perché il poeta, con l’aspetto che si ritrova, dà l’impressione di essere rannicchiato su una sedia dietro il tavolino del caffè.

Il Recanatese però li mette in ridicolo a modo suo nella poesia I nuovi credenti, scritta a Napoli nel 1835 e pubblicata postuma solo nel 1906, nei Canti. Una satira spietata che ridicolizza questi intellettuali “progressisti” e li tratteggia come troppo sciocchi per essere infelici.

Questi “apostoli” del nuovo spiritualismo cattolico sono i “nuovi credenti”. Esponenti dello spiritualismo napoletano, cattolici per interesse e ottimisti per stoltezza. Intellettuali che, secondo la visione leopardiana, dissertano dei problemi del mondo e della società compiacendosi di loro stessi e delle proprie banalissime idee, mentre riuniti sorseggiano una cioccolata calda alla caffetteria o pasteggiano al ristorante.

Il Caffè Due Sicilie è forse il luogo dove Giacomo Leopardi ha trascorso i momenti più piacevoli della sua permanenza partenopea. Ma anche quello che portò meno benefici alla sua salute.

Leopardi è vorace più che goloso e questo influisce pericolosamente sul suo stato di salute. Questo tratto del suo carattere viene evidenziato anche nel film di Mario MartoneIl giovane favoloso” dove il poeta è interpretato magistralmente da Elio Germano.

Dietro quel tavolino di piazza Carità, sorbisce tazzine di caffè senza soluzione di continuità. Intervallate da quantità industriali di gelati, granite e prelibatezze di pasticceria. Non disdegna frutti di mare, crostacei, cozze e, in particolare, i “cannolicchi”.

 

Uno stile alimentare che peggiora lo stato di salute

 

In ogni caso, uno stile di vita che a Napoli, come in qualunque altro luogo della Terra, non avrebbe potuto aiutarlo a guarire. Infatti, sia pure in situazioni tutt’altro che chiare, si spense il 14 giugno 1837.

Questo ritratto napoletano di Leopardi mostra come anche un grande personaggio possa eccedere nelle debolezze umane. Ma non lo sminuisce ai nostri occhi.

Al contrario di Antonio Ranieri, che raccoglie in un libro gli aspetti più riservati della vita del poeta e lo pubblica postumo. Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi è un libro di meschino gossip che fece la fortuna dell’autore infangando la memoria di quello che era stato un suo grande amico e a cui doveva tanto.

Anche la fama. Infatti, chi ricorderebbe oggi Antonio Ranieri senza l’accostamento al poeta di Recanati?

 

Cronologia degli anni trascorsi a Napoli

 

L’avventura napoletana del poeta inizia il 2 ottobre 1833 quando, insieme all’inseparabile amico, va ad abitare in Via San Mattia 88, palazzo Berio, sui Quartieri Spagnoli.

I due restano in quest’appartamento per soli due mesi, poi si trasferiscono in uno più ampio in via Santa Maria Ogni Bene 35. Una casa alle pendici della collina del Vomero, ambiente e clima ideale per la salute di Giacomo.

Il 9 maggio del 1835 si traferiscono in vico Pero 2, lungo via Santa Teresa degli Scalzi, sua ultima dimora napoletana. Tuttavia, negli anni della sua permanenza in questa nuova casa trascorre diversi mesi nella villa di Giuseppe Ferrigno, giurista e cognato di Ranieri.

La località era Torre del Greco, alle falde dello “sterminator Vesevo” e la casa era circondata da un enorme podere. Finalmente il clima e le condizioni ideali per la salute in continuo peggioramento di Leopardi.

Comunque, secondo la testimonianza di Ranieri in una lettera inviata a Monaldo Leopardi, quel periodo fu molto proficuo per la produzione letteraria.

Di sicuro scrisse La ginestra o il fiore del deserto, una delle sue ultime e più “filosofiche” poesie.

Infatti, la villa Carafa-Ferrigno, una delle ville vesuviane del Miglio d’Oro, in onore dell’illustre ospite e dei suoi versi oggi è diventata Villa delle Ginestre.

Tuttavia, la permanenza a Torre del Greco del poeta, nonostante le parole di Ranieri e le amorevoli cure dei suoi parenti, fu molto dura. I suoi malanni erano accompagnati da forti dolori e spesso richiedevano l’intervento di un medico. Ma la città era lontana e Giacomo non aveva i mezzi economici per poterlo avere.

 

Misteri sulla morte e la sepoltura di Giacomo Leopardi

 

Sulla sua morte, avvenuta nella casa di vico Pero, aleggia un mistero molto fitto che di certo non si può risolvere in poche parole perché rappresenta un “caso” che difficilmente troverà una risposta.

È un mistero persino il luogo della sua sepoltura. Ranieri disse di averlo sepolto nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta.

Ma le ossa rinvenute in quel luogo e traslate al Parco Vergiliano, dove si trova anche la tomba di Virgilio, appartengono a più persone e manca il cranio.

In realtà si sospetta che i resti mortali di Giacomo Leopardi si trovino nel grande ossario del cimitero delle Fontanelle di Napoli, nel quartiere Sanità.

Questo perché il poeta morì durante un’epidemia di colera. Raggiungere il lato opposto della città con un cadavere senza essere notati era praticamente impossibile. La gendarmeria perquisiva meticolosamente ogni carretto nel timore che vi fosse il corpo di un coleroso. 

Al contrario il cimitero delle Fontanelle è raggiungibile a piedi in un quarto d’ora da vico del Pero, dove morì Leopardi. Attraverso stretti vicoli interni e con scarsa possibilità di incorrere in controlli.

Forse non sarà andata proprio così, ma per come abbiamo avuto modo di conoscere Ranieri e facendo semplicemente due più due, non sembra poi un’ipotesi così peregrina.

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